Antonio Bresciani

Disambiguazione – Se stai cercando Antonio Bresciani pittore italiano del Novecento, vedi Antonio Bresciani (pittore).
Antonio Bresciani

Antonio Bresciani, propriamente Antonio Bresciani Borsa (Ala, 24 luglio 1798Roma, 14 marzo 1862), è stato un gesuita e letterato italiano.

Biografia[modifica | modifica wikitesto]

Nacque ad Ala, nell'allora Tirolo italiano, il 24 luglio 1798. Suoi genitori furono Leonardo Bresciani Borsa e la contessa Vittoria Alberti, figlia di Cornelia Fregoso, discendente dell'omonima famiglia che diede ben dodici dogi alla Repubblica di Genova. Figlio primogenito, ebbe un'educazione cristiana anche ad opera del sacerdote Filippo Bernardi che lo avviò agli studi letterari. Nel 1814 si recò a Verona dove studiò retorica. Qui ebbe l’opportunità di conoscere e stringere amicizia con lo scrittore padre Antonio Cesari, con il fisico Giuseppe Zamboni e con don Giuseppe Monterossi. Grazie alla sua maturità ed affidabilità, appena superati gli studi liceali, divenne professore di lettere presso il liceo di Verona.

Sempre a Verona nel 1815 prese gli ordini e nel 1824 per seguire il suo impulso a farsi gesuita fuggì di nascosto nello Stato pontificio, dove venne ammesso come novizio nel collegio gesuita di Sant'Andrea del Quirinale. Ricercato per questa fuga nel 1826 si rifugiò a Firenze, presso Pietro Leopoldo Ricasoli. Nel 1827 prese i voti solenni di gesuita.

Per ordine della Compagnia di Gesù, dal 1828 al 1848, si dedicò all'educazione dei giovani secondo le idee della Chiesa.[1] In questo ventennio si spostò in diverse città d'Italia come rettore di collegi: Torino, Genova, Modena e quello di Propaganda in Roma. Visitò la Sardegna dal 1844 al 1846, percorrendo la Trexenta e l'Ogliastra, la Barbagia e la parte occidentale, animato dal desiderio di conoscere le tradizioni delle "antiche nazioni". Il suo sguardo sulla Sardegna si fonda su una serie di dottrine oggetto di diverse critiche, secondo le quali molte usanze dell'isola derivavano dai popoli d'Oriente.

Nel 1846 tornò a Roma per assistere all'elezione di Papa Pio IX. Il quale, poco tempo dopo, ebbe per Bresciani parole di elogio e di incitamento alla sua missione di scrittore.

Nel 1850 venne chiamato in Napoli a far parte del Comitato di Redazione della Civiltà Cattolica, la rivista gesuita appena fondata da padre Carlo Maria Curci. Per la Civiltà Cattolica ebbe l'incarico di scrivere racconti a puntate, con i quali intrattenne i lettori fino al 1862. Sulla Civiltà Cattolica uscì la sua opera più celebre, L’Ebreo di Verona, considerato il primo romanzo d'appendice italiano.

L’Ebreo di Verona si pone in aperta antitesi, fin dal titolo, con il romanzo di Eugène Sue L’Ebreo errante, pubblicato a puntate a partire dal 1845 in Francia, giunto in Italia nel 1847 grazie all’editore fiorentino Jacopo Grazzini e riproposto già nel 1848 da Seguin nella traduzione di Guerrazzi. Com’è noto, l’opera dello scrittore francese è fortemente polemica verso il potere temporale della Chiesa e, in particolare, verso la Compagnia di Gesù; la sua immediata notorietà anche in Italia consentì a Bresciani, attraverso la semplice scelta del titolo, di inserirsi immediatamente nel vivo della polemica.

Il protagonista del romanzo, Aser, è un giovane ragazzo ebreo, coraggioso e idealista, che entra a far parte della Carboneria, convinto della bontà degli ideali professati dalla setta. Disgustato dalle violenze perpetrate dai carbonari, decide di abbandonarla e di convertirsi al Cristianesimo. Per questo motivo viene condannato a morte dagli altri membri della setta e ucciso.

Il romanzo ebbe un enorme successo, esteso ben al di là degli ambienti cattolici: nel 1850, ancor prima di essere portato a termine, cominciò ad essere stampato in volume e negli anni immediatamente successivi apparvero edizioni economiche in numerose città della penisola. Si moltiplicarono inoltre le stampe non autorizzate, al punto che l’autore decise di pubblicare, già nel 1852, una versione ufficiale riveduta e corretta. Numerose, infine, furono le traduzioni nelle principali lingue europee.[2]

Bresciani morì a Roma il 14 marzo 1862. Le sue spoglie riposano nella chiesa del Gesù, accanto alle ceneri di sant'Ignazio. In occasione del centenario della scomparsa di Bresciani, sulla sua casa natale trentina, nel comune di Ala, è stato apposto un bassorilievo opera dello scultore Livio Fausto Sossass.

Il pensiero[modifica | modifica wikitesto]

Targa commemorativa nella città natale di Ala

L'opera di Bresciani è considerata un tipico esempio di retorica ottocentesca anti-patriottica. Nel suo tempo faceva da contraltare a una per molti aspetti simile retorica anticlericale e risorgimentale.[3] La trilogia di romanzi composta da L’ebreo di Verona, Della Repubblica Romana e Lionello o delle Società Segrete è uno scoperto attacco agli ideali risorgimentali e repubblicani.

Purista e ostile alla cultura romantica, Bresciani denunciava l'affinità ideologica fra romanticismo e liberalismo e si proponeva di dimostrare quale comune disegno sovversivo si celasse dietro a questi due movimenti, che parevano agire di comune accordo. Il gesuita trentino faceva notare come il romanticismo non andasse valutato quale mera corrente artistica, scevra da decise prese di posizioni politiche, ma al contrario come un movimento che si prefissava di interferire volontariamente sui contemporanei assetti istituzionali italiani.[4]

La posizione ideologica di Bresciani gli attirò critiche molto aspre. Celebre è la stroncatura del suo romanzo L'ebreo di Verona e, in generale, di tutta la produzione del Bresciani fatta da Francesco De Sanctis. Nel suo saggio del 1852,[5] così conclude il critico:

«Il padre Bresciani è un uomo di poco ingegno e di volgare carattere, senza fiele, senza spirito, uno di quegli uomini tagliati così alla grossa, di cui si dice con benevolo compatimento: - gli è un buon uomo ! - Egli ha studiato molto nelle cose della lingua ed ha scritto tra l'altro de' dialoghi utilissimi, ove ha raccolto i più bei vocaboli e modi di dire toscani ad uso degli studiosi. Se costui fosse rimasto nel secolo, sarebbe riuscito un uomo dabbene, lodato da tutti perché non invidiato da nessuno; rispettato per la sua sincera pietà e bontà d'animo [...] La mala ventura lo ha fatto capitare tra i gesuiti; ed ha dovuto partecipare ad atti e maneggi, ai quali non era chiamato né dal suo ingegno, né dal suo carattere; vestirsi di passioni che non sente; imparare a mentire, a calunniare, a malignare, ad odiare [...]»

La polemica non si esaurì con lo scritto di De Sanctis, ma ebbe un certo seguito, con una replica di padre Bresciani, anticipata dalle note inserite nelle successive edizioni dell’Ebreo e quindi affidata ad una risposta diretta in un altro romanzo, Ubaldo e Irene[6]:

«La natura degli affetti ora è vinta, pel più degli odierni scrittori, da un’arte appresa al banco, al cavigliato e allo squarciatoio dei macellai, al ceppo e alle mannaie de’ carnefici, alle fosse de’ carbonai, in fondo alle torrazze de’ carcerieri, in seno alle boscaglie degli assassini: e chi sa soffiare, mantacare, agitare e tempestar le passioni più impetuose e furenti, quello scrittore si dice conoscitor de’ cuori e avvivator dei più gagliardi sentimenti dell’anima umana. Per costoro l’ira d’Achille pennelleggiata da Omero è un’acqua fresca; i gran quadri della peste di Tucidide e di Lucrezio sono a colori dilavati, smorti, sbiancidi e smontati; gl’impeti di Demostene son buffetti e nocchini di donzella, e languori di tisicuzzo: ora per commovere i lettori vi bisogna bestemmie, imprecazioni, urla disperate, furori da spiritati, smanie da energumeni. Che volete, lettori miei graziosi? io non ho ingegno sì desto e leggeri da stravolare oltre i confini di natura, né polmoni né ugola da vociare e rimbombare si alto come richiedasi dal gusto de’ nostri eroi d’oggidì, che si vogliono ispirare a valor patrio colle scritture de’ contemporanei. Il De Santis [sic] m’ha già sentenziato, dicendo che l’autore dell’Ebreo di Verona (e però eziandio dell’Ubaldo) “è uomo di poco ingegno, e di volgare carattere, senza fiele, senza spirito, uno di quegli uomini tagliati così alla grossa, di cui si dice con un’aria di benevolo compatimento: gli è un buon uomo”. Oh che avete voi da apporre a sì fatta sentenza che non ha appello? Io per me la sottoscrissi di buon cuore, e mi parve di averla avuta a buon mercato. Sia con bene. Or se volete che le mie scritture sappiano di qualche cosa, dovete infarcirmi del pepe di Vittor Hugo, della canfora d’Eugenio Sue, della noce moscata di Giorgio Sand, de’ garofani di Dumas; aggiugneteci un fiasco d’aceto dei sette ladri, un po’ d’amore alla Congrève, un po’ d’odio alla Paixhans, un po’ di carezze alla Plissière e vedrete pan pepato che n’uscirà da soverchiar in savore quello di Siena! Ma egli è pure da uscire una volta di celia e parlar da uomo. Uno scrittore, che sia sacerdote, e religioso per sopraggiunta, voi vedete a primo guardo, lettori gentili, che non può e non dee maneggiare certe passioni che colle mollette, e come si fa de’ veleni, che si tramestano con somme cautele e circospezioni per non caricare le dosi, e uccidere in luogo di guarire l’infermo; […]. Laonde, lettori miei buoni, abbiatemi per iscusato; e se non tocco certe corde troppo delicate, meravigliatevi piuttosto con me, che in sei anni abbia con tanti e sì arditi argomenti camminato continuo sul filo del rasoio senza scalfirmi un tratto di pelle»

Nel clima anticlericale della cultura tardo-ottocentesca, la risposta di Bresciani fu completamente ignorata.[7] Nel Novecento si ebbe un tentativo di riabilitazione (ad esempio in epoca fascista da parte di Alfredo Panzini e Vittorio Cian e nel dopoguerra da parte di Francesco Flora[8]), ma il “marchio d’infamia” era ormai stato impresso e risultava ben difficile da togliere. A dare nuova forza alle tesi desanctisiane, inoltre, contribuirono il critico Luigi Russo (curatore dell’opera omnia di De Sanctis e poco benevolo verso la cultura cattolica in genere) e soprattutto il filosofo marxista Antonio Gramsci. Va fatto notare come Gramsci, pur intitolando I nipotini di padre Bresciani uno dei suoi Quaderni del carcere, dedicato alla letteratura popolare contemporanea, usi il nome del sacerdote in senso puramente indicativo, senza operare un'analisi delle sue opere (di cui non mostra di avere una conoscenza diretta).[9] Peraltro nel testo gramsciano Bresciani si trova in ottima compagnia, se anche Verga e soprattutto il cattolico Manzoni potevano essere tacciati di “brescianesimo”.[10] Tra i principali autori contemporanei accusati di brescianesimo, Gramsci annovera Ugo Ojetti (1871-1946), Alfredo Panzini (1863-1939) ed il giornalista Antonio Beltramelli (1879-1930), tutti colpevoli ai suoi occhi di essere “reazionari”, cioè anti-comunisti.[11]

A quasi centocinquant’anni dalla morte, Bresciani continua ad essere dimenticato, schiacciato dal giudizio desanctisiano nonostante ad uno studio più approfondito risaltino le sue capacità di scrittore, peraltro ampiamente riconosciutegli dai contemporanei (ad esempio Basilio Puoti).[12]

Opere principali[modifica | modifica wikitesto]

Narrativa[modifica | modifica wikitesto]

Saggistica[modifica | modifica wikitesto]

Opuscoli[modifica | modifica wikitesto]

Raccolte[modifica | modifica wikitesto]

Le opere edite e inedite di Padre Antonio Bresciani (1798-1862) furono probabilmente per la prima volta pubblicate postume, come supplemento al La Civiltà Cattolica del 2 luglio 1881 (o successivo)[14]. Secondo la pagina citata, estratta dalla rivista gesuita[14][15], le opere furono "per la prima volta riunite e corrette sopra gli originali, emendati e preparati dallo stesso autore", che personalmente si era mostrato contrario ad una loro divulgazione. L'opera è formata da:

  1. 17 volumi comprendenti l'Epistolario e 76 altri scritti del Bresciani, "tra libri, opuscoli e trattatelli diversi"
  2. ulteriori due volumi con il titolo "Opere minori", distribuiti anche come un'opera autonoma, a completamento della precedente serie. Fra le pubblicazioni raccolte: Memorie intorno alla vita di Michele Sezezytt, Arte di godere sempre, Memorie intorno ad Eugenio Cusani, Arte di ben governare, Esercizi spirituali, Vita di Abulcher Bisciarah, Biografie di tre alunni di Propaganda, Ammonimenti di Tionide, Avvisi a chi vuol pigliar moglie, Romanticismo italiano, Saggio di alcune voci toscane.

Note[modifica | modifica wikitesto]

  1. ^ Paolo Orvieto, Buoni e cattivi del Risorgimento. I romanzi di Garibaldi e Bresciani a confronto, Roma, Salerno Editrice, 2011, p. 16.
  2. ^ The Jew of Verona, London, Dolman, 1854; El Hebreo de Verona, Barcelona, 1857; Der Jude von Verona, Schaffhausen, Hurter, 1857; Le Juif de Verona, Paris, Casterman, 1859. Cfr. anche Opere Bresciani XVII: 307.
  3. ^ Cfr. A. Balduino, L'antirisorgimento di Antonio Bresciani, in Idem (a cura di), L'Ottocento, vol. 2, Milano, Vallardi, 1990, pp. 1154-1158.
  4. ^ Nicola Del Corno, I Paridi della letteratura: Romanzi e reazionari nell'Italia preunitaria, in Belfagor, vol. 55, n. 1, 31 gennaio 2000, p. 38, JSTOR 26147481.
  5. ^ Ristampato nel «Cimento», V, febbraio 1855.
  6. ^ A. Bresciani, Ubaldo e Irene, Civiltà Cattolica, Roma 1866, vol. XI delle Opere, p. 464-466.
  7. ^ L. Russo, Di un’ignota risposta polemica del padre Bresciani al De Sanctis, in “Belfagor”, vol. IX, n. 2 (31 marzo 1954), p. 216. Il critico, nel corso del testo, definisce non ignota, bensì, più correttamente, ignorata la risposta presente nelle Conclusioni di Ubaldo e Irene e non riportato da Benedetto Croce, Gli scritti di Francesco De Sanctis e la loro fortuna, Bari, 1917.
  8. ^ Francesco Flora, Storia della letteratura italiana, III, Milano, Mondadori, p. 274.
    «Non solo i fabbricatori di vocabolari devono tener conto di questo infaticato cogli-parole; ma anche i lettori discreti e attenti, ai quali più non grava una materia che offendeva gli uomini del Risorgimento e trasse il De Sanctis ad una stroncatura sincerissima, eppure viziata da una violenza massonica.»
  9. ^ Marina Paladini Musitelli, I Nipoti di padre Bresciani e la categoria del brescianesimo, in “Problemi. Periodico quadrimestrale di cultura”, Palombo Ed., Palermo, Anno 2001, n. 121, p. 138.
  10. ^ A. Gramsci, Quaderni del carcere, Einaudi, Torino 1975, Quaderno 8, nota 9, p. 943.
  11. ^ Gramsci li definisce “sobriamente” «araldi di una letteratura tutta verbale e di nascosti o manifesti spiriti reazionari». Luigi Russo, in F. De Sanctis, Saggi critici, I, 1971, pp. 50-51; A. Gramsci, Brescianismo, in Letteratura e vita, Einaudi, Torino, 1951, pp. 45-194.
  12. ^ DBI.
  13. ^ Titolo completo: "Del romanticismo, italiano rispetto alle lettere, alla religione, alla politica e alla morale", presso Tipografia e Libreria Arcivescovile, ditta Boniardi-Pogliani di E. Besozzi, dedicata al marchese Giuseppe Durazzo, finita di scrivere a Modena il 3 dicembre 1838 (p.13). Imprimatur assente.
  14. ^ a b Testo latino con traduzione e note a margine, in La Civiltà Cattolica, I, vol. 7, Firenze (presso Luigi Manuelli tipografo), 2 luglio 1881, pp. 1,4 , lt, OCLC 1774680. URL consultato il 13 gennaio 2019 (archiviato il 13 gennaio 2019).
  15. ^ La Civiltà Cattolica, su books.google.it, 11 (parte 1), p. 4. URL consultato il 13 gennaio 2019 (archiviato il 13 gennaio 2019).

Bibliografia[modifica | modifica wikitesto]

  • Opere del padre Antonio Bresciani, vol. 1, Roma-Torino, 1865.[1]
  • Egidio Bellorini, «BRESCIANI, Antonio (più esattamente Bresciani Borsa)» la voce nella Enciclopedia Italiana, Volume 7, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 1930.
  • Benedetto Croce, La rivendicazione di padre Bresciani, in Pagine Sparse, Laterza, Bari 1960 (II ed.).
  • Anna Coviello Leuzzi, «BRESCIANI BORSA, Antonio» in Dizionario Biografico degli Italiani, Volume 14, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 1972.
  • Gaetano Bazzoli (a cura di), P. Antonio Bresciani: La figura, in Nel centenario di padre Antonio Bresciani, Ala, Biblioteca Comunale di Ala, 1962, pp. 5-13.
  • Paolo Orvieto, Buoni e cattivi del Risorgimento. I romanzi di Garibaldi e Bresciani a confronto, Roma, Salerno Editrice, 2011.
  • Celestino Testore (a cura di), Il padre Antonio Bresciani a cent'anni dalla morte, in La Civiltà Cattolica, IVª ed., Roma, La Civiltà Cattolica, 1962, pp. 521-534.
  • Marcello Derudas, Il Convitto Nazionale Canopoleno di Sassari. Una finestra aperta su quattrocento anni di storia, Sassari, Carlo Delfino, 2018. ISBN 978-88-9361-071-1

Voci correlate[modifica | modifica wikitesto]

Altri progetti[modifica | modifica wikitesto]

Collegamenti esterni[modifica | modifica wikitesto]

Controllo di autoritàVIAF (EN9837565 · ISNI (EN0000 0001 2120 0587 · SBN RAVV064665 · BAV 495/24357 · CERL cnp00443362 · LCCN (ENno2001069600 · GND (DE121813657 · BNE (ESXX1511316 (data) · BNF (FRcb10658558v (data) · J9U (ENHE987007259056305171 · CONOR.SI (SL142472291 · WorldCat Identities (ENlccn-no2001069600
  1. ^ Memorie intorno alla vita di Michele Sezezytt, Arte di godere sempre, Memorie intorno ad Eugenio Cusani, Arte di ben governare, Esercizi spirituali. Per l'indice del Volume II, si veda p. 502