Di quella pira

Voce principale: Il trovatore.

Di quella pira è una popolare cabaletta, tratta dal Trovatore di Giuseppe Verdi, su libretto di Salvadore Cammarano.

Nel secondo quadro della parte terza, Manrico (tenore) e Leonora (soprano) si trovano all'altare, pronti a sposarsi. Manrico ha appena cantato l'unica aria a lui affidata nell'opera, «Ah sì, ben mio coll'essere». Dopo un breve duetto "nuziale" («L'onda de' suoni mistici»), accompagnato da un organo interno, arriva improvvisamente Ruiz, il luogotenente di Manrico nel conflitto contro il Conte di Luna, e gli rivela che la vecchia zingara Azucena, colei che Manrico ritiene la propria madre, è caduta nelle mani dei nemici. Manrico invia Ruiz a raccogliere un drappello di armati, e intona questa celebre cabaletta. L'intervento di Leonora ha luogo prima che l'esecuzione riprenda da capo, come previsto dalle convenzioni del melodramma ottocentesco. La cabaletta si conclude con la partenza di Manrico per la battaglia con cui intende salvare la madre.

I versi[modifica | modifica wikitesto]

Manrico (tenore):
Di quella pira l'orrendo foco
Tutte le fibre m'arse avvampò!...
Empi spegnetela, o ch'io tra poco
Col sangue vostro la spegnerò...
Era già figlio pria d'amarti
Non può frenarmi il suo martir.
Madre infelice, corro a salvarti,
O teco almeno corro a morir!

Leonora:
Non reggo a colpi tanto funesti...
Oh quanto meglio sarìa morir!

Ruiz, Coro di armati:
All'armi, all'armi! eccone presti
A pugnar teco, teco a morir.

Note alla prassi esecutiva[modifica | modifica wikitesto]

La partitura prevede, com'è normale per una cabaletta, l'esecuzione di due strofe uguali: il breve intervento di Leonora introduce la ripresa e la stretta del coro conclude la cabaletta. Spesso, tuttavia, i tenori la cantano una sola volta, con la soppressione delle battute del soprano e il passaggio diretto alla sezione corale conclusiva.

La fama del passo, al di là della felicissima intuizione musicale di Verdi, è legata alla prassi esecutiva che vi interpolò due do acuti a voce piena (il cosiddetto do di petto), ossia le note più entusiasmanti del repertorio tenorile: uno come puntatura sulla "e" di «o teco» e un secondo nel finale, tenuto ad libitum, sulla terza ripresa delle parole «all'armi!». In questo secondo caso, in realtà, è evidente un modello precedente: la cabaletta «Corriam voliam», nell'ultimo atto del Guglielmo Tell di Rossini, dove Arnoldo, per convenzione (ma, anche in questo caso, alterando il testo dell'autore), punta all'acuto proprio sulle parole «All'armi».

Gli storici della musica sono divisi sull'inventore della variante acuta: secondo alcuni si trattò del primo interprete dell'opera, il tenore fiorentino Carlo Baucardé che, nelle riprese del Trovatore andate in scena nella sua città natale, avrebbe escogitato l'effetto. Secondo altri, invece, fu il cantante Enrico Tamberlick, il maggior tenore eroico dell'epoca di Verdi, cui si deve, tra l'altro, l'inserimento di una puntatura al do diesis acuto in una cabaletta dell'Otello di Rossini.

Per evitare il discredito dei loggioni, oggi quasi nessun tenore osa eseguire il passo come l'ha scritto Verdi, ossia senza gli acuti tradizionali che, anzi, sono tra i più febbrilmente attesi della storia dell'opera. Spesso, per evitare danni, la tonalità del passo viene abbassata, in modo che gli acuti diventino due Si o anche due Si bemolli, più facili da emettere. In epoca recente, il direttore Riccardo Muti ha eseguito l'opera senza le tradizionali puntature in almeno due occasioni: nel 1977 al Maggio Musicale Fiorentino (con Carlo Cossutta nei panni di Manrico) e nel 2000 al Teatro alla Scala (con Salvatore Licitra). Esistono anche registrazioni di una esecuzione filologica di Plácido Domingo.

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