Jean Dubuffet

Jean Dubuffet fotografato da Paolo Monti nel 1965 a Vence (Fondo Paolo Monti, BEIC)

Jean Dubuffet (Le Havre, 31 luglio 1901Parigi, 12 maggio 1985) è stato un pittore e scultore francese. È considerato il fondatore del movimento artistico dell'Art Brut.

Biografia[modifica | modifica wikitesto]

Jean Dubuffet nel suo studio a Vence fotografato da Paolo Monti nel 1960 (Fondo Paolo Monti, BEIC)
Scultura di J.Dubuffet Jardin d'Email

Dopo aver frequentato per due anni l'Accademia d'Arte locale, nel 1918 si reca a Parigi per frequentare l'Académie Julian, che lascia dopo appena sei mesi. In questo periodo frequenta Suzanne Valadon, Fernand Léger e Raoul Dufy, ed ha una forte influenza su di lui il libro L'arte dei folli (Bildnerei der Geisteskranken, Berlin, 1922) dello psicoterapeuta amante dell'arte Hans Prinzhorn.

Dubuffet è anche affascinato dalla produzione dei popoli primitivi, dall'arte africana e dai disegni tracciati dai bambini.

Nel 1923 vive in Italia e nel 1924 in Sudamerica. Smette di dipingere per molti anni, lavorando come disegnatore industriale. Per un lungo periodo si occupa della gestione dell'Azienda vinicola familiare di Buenos Aires. La scelta di diventare pittore è avvertita in lui fin dai tempi dell'Académie Julian ma poi, più volte ritrattata, diventa definitiva nel 1942 e, nel 1944, tiene la sua prima mostra personale alla Galerie René Drouin di Parigi. È stato scritto che in questo periodo lo stile delle sue opere è influenzato dall'astrattismo di Paul Klee.[1]

L'attività artistica[modifica | modifica wikitesto]

Jean Dubuffet, 1960.

Inizia nel 1945 il vero e più sentito percorso artistico di Dubuffet, quando teorizza e introduce il concetto di Art Brut, lavori che sono spontanei, immediati, prodotti da persone prive di specifica formazione artistica, come i malati mentali, i bambini. Nel 1947, assieme ad André Breton, Paulhan e Drouin fonda la "Compagnie de l'art brut": il termine definisce l'attività creativa di "artisti loro malgrado", che creano senza intenzioni estetiche, per una personale pulsione emotiva confluente in una comunicazione immediata e sintetica. Contemporaneamente organizza una mostra esponendo i disegni di bambini e alienati mentali.

L'interesse di Breton per i disegni dei malati mentali risale al 1916, quando era infermiere al centro psichiatrico Saint-Dizier di Nantes. La prima esposizione importante dell'art brut, nell'ottobre del 1949, riunisce più di 200 opere alla Galleria Drouin. Così si legge nel Dictionnaire André Breton dove è scritto anche come Breton, a un certo punto, rimproverasse a Dubuffet di restringere il concetto dell'art brut alla produzione dei malati mentali.[2] Dubuffet, in occasione «della mostra collettiva (...) alla Galleria Douin, tenutasi in ottobre» scrive L'Art Brut préferé aux arts culturels, dove si legge: «La vera arte è sempre là ove non la si attende. Là ove nessuno pensa a lei, né pronuncia il suo nome».[3]

Organizza la sua prima personale americana che si svolgerà a New York, alla Pierre Matisse Gallery. Sin dall'inizio della sua avventura artistica, Jean Dubuffet rivendica delle posizioni anticulturali, poiché secondo lui la cultura impoverisce, soffoca, livella, genera tenebre e, per dirla in altri termini, è asfissiante. Il suo obiettivo è quello di liberarsi della tradizione artistica, per andare alla ricerca di forze artistiche originali e tracciare una nuova strada per l'arte.

Seguendo l'esempio di numerosi pittori dell'avanguardia, quali Kandinskij, Mirò o Klee, Dubuffet presta un'attenzione speciale ai disegni infantili. Confrontando un grande numero di disegni e dipinti eseguiti da Dubuffet tra gli anni Quaranta e Cinquanta con opere infantili che egli ha avuto tra le mani e che hanno suscitato il suo interesse, è facile riscontrare una serie di influenze iconografiche e formali. Il disegno infantile non costituisce per lui un modello estetico. Se a livello formale sono presenti alcune similitudini con l'arte infantile, questo elemento deve essere letto come il riflesso di un'influenza determinante di tutt'altra portata, che permea il suo approccio filosofico e ideologico. New York lo colpisce, e vi risiede dal 1951 al 1952; dopodiché torna a Parigi, dove ha luogo nel 1954 una retrospettiva al Cercle Volney. Dal 1949 al 1960 si dedica a vari cicli di opere: Paysage Grotesque (1949-1950), Corps de Dames e Sols et Terrains (1950-1952), Assemblage e Texturologie (1953-1959), Materiologìes (1959-1960). Sperimenta anche in campo musicale, assieme all'amico Asger Jorn. Nel 1957 lo Schloss Morsbroich a Leverkusen, in Germania, è il primo museo che gli dedica una retrospettiva. Lo seguiranno successivamente il Musée des Arts Décoratifs di Parigi, il Museum of Modern Art di New York, l'Art Institute di Chicago, lo Stedelijk Museum di Amsterdam, la Tate Gallery di Londra e la Solomon R. Guggenheim Museum di New York. Venezia ospita le sue opere a Palazzo Grassi nel 1964, con l'esposizione dei quadri di una serie iniziata nel 1962, l'Hourloupe.[4]

Viene pubblicata una raccolta di scritti, Prospectus et tous écrits suivants nel 1967, anno in cui inizia la realizzazione di strutture architettoniche da lui progettate; poco dopo inizia varie sculture monumentali commissionategli per esterni. Nel 1971 realizza i suoi primi oggetti scenici, i "practicables". Nel 1980-1981 ha luogo una ricca retrospettiva all'Akademie der Künste di Berlino, al Museum Moderner Kunst di Vienna e alla Joseph-Haubrichkunsthalle di Colonia. Nel 1981 il Solomon R. Guggenheim Museum di New York gli dedica una mostra in occasione dell'ottantesimo compleanno. Dubuffet muore a Parigi il 12 maggio 1985.

La sua collezione dedicata all'Art Brut è ora ospitata presso la Collection de l'art brut di Losanna, in Svizzera. La collezione viene spesso definita un "museo senza muri", in quanto trascendeva i confini nazionali ed etnici e abbatteva efficacemente le barriere tra nazionalità e culture.[5]

Argomento ed opera[modifica | modifica wikitesto]

È stata notata in Dubuffet una vicinanza all'approccio satirico per quanto riguarda la sua visione artistica: questi deforma satiricamente la realtà, svalorizzando intenzionalmente l'immagine. Se nel contesto della pittura novecentesca il lavoro di Dubuffet è stato inserito nella tendenza rappresentata da una schiera di artisti che mostrano un chiaro discredito verso la realtà figurata quali ad esempio Lucio Fontana, Alberto Burri, Antonio Tàpies, nel suo caso la figura, anche se deformata, non viene abbandonata e pur subendo una satirica deformazione non ne rappresenta una caricatura, ma viene ad essere lo sguardo unico dell'artista.[6]

Nell'opera di Dubuffet troviamo il superamento dell'antitesi arte figurativa - arte astratta. «Egli sostenne la necessità di un altro linguaggio (art autre), nel quale la materia non si pone più come passiva, ma come attiva e determinante della creazione artistica, (...)».[7]

Ancora, che occorre fare attenzione a confondere la materia di un artista e l'opera che ha creato operando una metamorfosi e che Dubuffet, a proposito dei suoi Sols ha dichiarato che i suoi suoli non sono pittoreschi, fatti di rovine storiche o lussuriosi, bensì pavimenti sporchi o terra nuda polverosa che nessuno si prenderebbe la briga di notare e ancor meno di dipingere e che invece per lo stesso artista sono tele di incanto e di giubilo[8], non discostando di fatto il suo sguardo da un motto di Giovan Battista Marino: «È del poeta il fin la meraviglia».[9][10] Da notare che durante il soggiorno italiano del giovane artista l'Editore Nerbini pubblica l'Adone del Cav. Marino, illustrato con «Quadri originali di Fabio Fabbi».[11] D'altra parte negli anni che vanno dal 1920 al 1922 Dubuffet vive «una fase di isolamento durante la quale si interessa alla letteratura, allo studio delle lingue e alla musica».[12] A proposito degli scritti quelli di Dubuffet sono innumerevoli e «molti scrittori professionisti potrebbero invidiargli le invenzioni verbali in uno stile audacissimo, gli innumerevoli aneddoti, i veloci ritratti di personaggi». Tra l'altro «Dubuffet è l'unico pittore, assieme a Picasso, che abbia sistematicamente documentato e pubblicato tutta la sua opera: più di quaranta volumi illustrati con una messe di note tecniche estremamente dettagliate» a cui «vi si dedicò senza interruzione a partire dal 1942»[13]. Nei testi datati dal 1946 (Prospectus, Commentari), l'artista, «insofferente della estetica tradizionale, lontana dalle esperienze dell'uomo comune, portò alla luce (...) quelle forme di arte spontanea che sono proprie dei bambini e degli alienati (→ art brut)» in realtà volendo indicare «ogni genere di manifestazione espressiva bruta, spontanea e immediata, priva di intenzioni culturalie di sovrastrutture estetche».[14]

Dubuffet spezza la tradizione francese che ritiene «inaccettabile che un artista sia coinvolto nel mondo degli affari», dove dimostrò effettivamente notevole abilità, e «non poteva essere più lontano dall'artista alla Van Gogh: è un pittore di una pasta completamente nuova e il simbolo di una nuova epoca», i primi interessi più legati alla letteratura che alla pittura. Interessi che insieme alla pittura vanno da Dostoevskij, ai balletti russi di Diagilev, a Terenzio, a San Gregorio di Tours.[13]

Dubuffet dal 1942 si dedica definitivamente al lavoro artistico, un processo lento scansionato da crisi come quella del 1933, quando il grossista di vini apre uno studio di pittura dove opera nel tempo che si ritaglia dall'attività commerciale, mettendo così in crisi il proprio matrimonio, non sopportando la moglie una vocazione imprevista del marito, vocazione che la porterà tra l'altro ad accusare Dubuffet, l'amante alla luce del sole «della bella moglie di Léger», di omosessualità.[13] Realizza allora cicli pittorici e scultorei come Metériologies (1958 - 1960), Paris Circus (1961 - 1962) e L'Hurloupe, la cui idea nasce nel luglio 1962 dalle tracce casuali che lo stesso artista esegue mentre è al telefono.[15]

Dubuffet e l'Italia[modifica | modifica wikitesto]

La prima volta che Dubuffet è in Italia lo troviamo a Venezia nel 1923, è l'epoca in cui «studia avidamente tutte le illustrazioni, proprio come tutti i surrealisti e gli artisti del Bauhaus di quel tempo».[13] Per avere un'idea di questa fase del suo percorso artistico, interrotto nell'ottobre del 1924 quando sbarca a Buenos Aires e inizia il periodo ventennale lontano dall'arte, «eccetto un intervallo fra il 1933 e il 1937»[13], alla Collezione Gori della Fattoria di Celle è depositata una sua opera, un olio su tela di 49,5 per 64,5 cm dal titolo Le buveur.[16] L'immagine si colloca nell'ambito dell'arte del tempo, in particolare si nota una certa influenza di Alberto Savinio. Nel 1964, scrive Paolo Marinotti nel catalogo della mostra Hourloupe a Venezia[17] «Jean Dubuffet torna a Palazzo Grassi per la quinta volta consecutiva - e questa volta da solo - (...). (...) a Palazzo Grassi non si consacra nessuno: qui tutti sono "in marcia". Palazzo Grassi non è un'espressione ufficiale di cultura, né un museo-mausoleo (...)».[16]

Dubuffet e l'Art Brut[modifica | modifica wikitesto]

È stato scritto che Jean Dubuffet inventò la nozione di Art Brut nel 1945, «in polemica con la cultura artistica ufficiale (...) al termine di un celebre viaggio "iniziatico" in Svizzera, in compagnia di Le Corbusier e dello scrittore Jean Paulhan, alla ricerca dei "primitivi del XX secolo", le cui opere scopre all'interno degli ospedali psichiatrici e, in seguito, nelle prigioni e nelle campagne più isolate». Ciò che legava questo concetto allo stato dell'arte a lui contemporanea era la sfida comune verso l'eredità illuminista, un atteggiamento «amplificato dalla necessità di ripartire da zero dopo la catastrofe bellica».[18] Un'estetica brutale quindi, riallacciandosi al volume di Hal Foster del 2020 Brutal Aesthetics, che mette in relazione i periodi bui della civiltà con la paradossale domanda che si pose, più di una volta, Walter Benjamin all'inizio degli anni anni Trenta e che può essere così sintetizzata: come sopravvivere alla civiltà se necessario? La questione si poneva per Benjamin considerando che la civiltà parodia di se stessa cui si riferiva era quella del Fascismo e del Nazismo e che la Barbarie che aveva seguito la Prima guerra mondiale obbligava a fare Tabula rasa e a ripartire da zero.[19] Seguendo questo percorso, dopo la Seconda guerra mondiale, alla nascita di Art Brut, risulta illuminante ed esplicativa a tale proposito la sentenza di Theodor W. Adorno del 1949, quando dichiarava che «scrivere una poesia dopo Auschwitz è un atto di barbarie».[20]

Dubuffet e il graffitismo[modifica | modifica wikitesto]

A suo tempo fu scritto che con la mostra di Palazzo Grassi a Venezia del 1964 Dubuffet appariva quasi un epigono di Picasso quando, all'alba del XXI secolo, viene considerato «il padre fondatore del graffitismo, come il Doganiere lo fu dei naïf». Tale la lettura della sua opera nella mostra a Brescia, Palazzo Martinengo, primavera - autunno 2002, Dubuffet e l'arte dei graffiti. L'arte di Dubuffet non è più di popolo, ma nemmeno di élite. «Ci appare come un cortocircuito tra l'individuale e il collettivo. (...) Per molti giovani è un modo aggressivo, massificato, autistico per "gridare sui muri" la propria presenza»[21].

I Barbus Müller, opere chiave dell’Art Brut esposte a Clermont Auvergne nella quarta sezione della mostra Sur le pas de Dubuffet en Auvergne (8 luglio - 30 ottobre 2022)

Dubuffet e la materia[modifica | modifica wikitesto]

Per Dubuffet, ricorda ancora Laurent Danchin, «la materia è sacra ed è un linguaggio». E, riportando le parole dello stesso artista[13], tratte da Note per le persone colte del 1946, leggiamo: «La spiritualità deve usare il linguaggio della materia. Ciascun materiale possiede un suo linguaggio, è esso stesso un linguaggio». (Prospectus I, p. 58). Renato Barilli, a proposito del termine materia nella pittura novecentesca, ricorda come tale termine sia ambiguo e venga ad assumere diversi significati. Dubuffet attraverso l'uso di materiali lontani da quelli a uso delle belle arti, quali ad esempio catrame, cartapesta o ali di farfalla, andando oltre i colori ad olio o gli acquarelli e mettendo in campo le più diverse sostanze brutali e grossolane, nonché precarie, rende la materia stessa qualcosa di «non più immediatamente fisico (...) e viene ad essere null'altro che l'infinito, ciò che non ha più limite e confine, ma che pulsa in una innumerevole presenza di elementi indifferenziati». L'opera realizzata dovrà avere in sé stessa i propri valori salvandosi e giustificandosi con le proprie forze e non potrà sperare «di essere sostenuta da ragioni estrinseche, o da un esame dei buoni propositi da cui è partito l'artista».[22]

Dubuffet e l'infanzia[modifica | modifica wikitesto]

È stato scritto che la tematica dell'infanzia in Dubuffet è ironica e di tipo artificiale, che la meraviglia e l'ingenuità proprie dell'infanzia vengono sfiorate soltanto per travasarle nello sguardo dell'artista. «Dubuffet è un falso naïf, (...). Ciò che Dubuffet trae da questa infanzia simulata è la spinta a fare piazza pulita di tutta la cultura artistica; è un nuovo e potente mezzo per liberarsi e esplorare il mondo circostante» (p.76)[13]. Questa tematica del nesso tra sguardo dell'infanzia e sguardo dell'artista è stata sviluppata nella mostra al Museo Cantonale d'Arte di Lugano nel 2005 Les enfants terribles. Il linguaggio dell’infanzia nell’arte 1909-2004, dove le opere di Dubuffet sono viste all'interno di un ampio percorso espositivo che ha il suo incipit nel Ritratto di fanciullo con disegno (1520) di Giovanni Francesco Caroto, su cui «è visibile, nel foglio sorretto appunto dal ragazzo ritratto, un disegno raffigurante una figura umana tracciata in modo del tutto simile a quello di un bambino dei nostri giorni».[23] Nel libro-intervista A ruota libera (Bâtons rompus) la prima domanda posta a Dubuffet concerne il suo umore, nel 1942, quando ricominciò per la terza volta a dipingere. L'artista risponde: «Avevo la sensazione che pitture prive di tecnica come quelle dei bambini, fatte senza sforzo, rapidamente, possano essere altrettanto efficaci, o forse più, dei quadri prodotti nel circuito culturale, e che possano soprattutto fornire apporti inattesi, aprendo nuovi varchi al pensiero».[3]

Scritti[modifica | modifica wikitesto]

  • (FR) Jean Dubuffet, Prospectus et tous écrits suivants, Tome I, II, Paris 1967; Tome III, IV, Gallimard: Paris 1995
  • (EN) Jean Dubuffet, Asphyxiating Culture and other Writings. New York: Four Walls Eight Windows, 1986
    ISBN 0-941423-09-3

Note[modifica | modifica wikitesto]

  1. ^ Peggy Guggenheim Collection, Jean Dubuffet, su guggenheim-venice.it, © 2004. URL consultato il 19 gennaio 2024.
  2. ^ (FR) Henri Béhar (Sous la direction d'), Dictionnaire André Breton, Paris, Classiques Garnier, 2012, pp. Voce: Art Brut.
  3. ^ a b Jean Dubuffet, A ruota libera, Graphos, Genova, dicembre 1997, pp.7 e 62
  4. ^ Peggy Guggenheim Collection, Logogrifo di pale, Venezia, 31 marzo 1969. URL consultato il 4 settembre 2023.
  5. ^ (EN) Kent Minturn, Dubuffet, Lévi-Strauss, and the Idea of Art Brut, in Res: Anthropology and aesthetics, vol. 46, 2004-09, pp. 247–258, DOI:10.1086/resv46n1ms20167651. URL consultato il 12 marzo 2023.
  6. ^ José Corredor - Matheos, Daniel Giralt Miracle, La pittura oggi, in gt Grandi Temi, Catalogo 28309, Novara, Istituto Geografico De Agostini, 1976 ©1973 Barcellona e Losanna, p. 118.
  7. ^ L'Enciclopedia tematica, in Arte, Arte / A - Fir, n. 1, Rizzoli Larousse, 2005.
  8. ^ (FR) Joseph - Émile Muller, La fin de la peinture, in Idées, n. 455, Paris, Éditions Gallimard, 1982, pp. 77 - 82.
  9. ^ Massimo Presciutti, Microsolchi dell'arte. Viaggio a cavallo dei secoli XV e XVI attraverso l'opera di Giuliano Presciutti, Firenze, PresciArt, aprile 2019, p. 102.
  10. ^ Redazione ANSA, Dubuffet, maestro di gioco e meraviglia. A Reggio Emilia 140 opere tra tele, sculture e libri d'artista, su ansa.it, Roma, 31 ottobre 2018. URL consultato il 5 dicembre 2023.
  11. ^ Giambattista Marino, L'Adone. A cura di Gustavo Balsamo-Crivelli, Firenze, Casa Editrice Nerbini, 1922.
  12. ^ Martina Mazzotta e Frédéric Jaeger, Jean Dubuffet. L'arte in Gioco. Materia e spirito 1943-1985, in Fondazione Palazzo Magnani Reggio Emilia 17 novembre 2028-3 marzo 2019, Milano, Skira, 2018, p. 292.
  13. ^ a b c d e f g Laurent Danchin, Jean Dubuffet, Rusconi libri srl, Santarcangelo di Romagna 2003, © Paris 1993, pp. 28 - 38, 54
  14. ^ Giorgio Cusatelli e Giovanni Raboni (Collaboratori delle Redazioni Garzanti), Enciclopedia dell'arte Garzani, Milano, Aldo Garzanti Editore, 1973.
  15. ^ (FR) Jacinto Lageira, Dubuffet. Le monde de l'Hourloupe, in Hors série Découverte Gallimard Centre Pompidou, Paris, Gallimard - Zanardi, 2001.
  16. ^ a b Stefano Cecchetto e Maurizio Vanni (a cura di), Jean Dubuffet e l'Italia in Introduzione 1924 - 1948, Silvana Editoriale, Cinisello Balsamo Milano, 2011, p. 34 (immagine) e p. 12 (testo)
  17. ^ Paolo Marinotti e Renato Barilli, L'Horloupe di Jean Dubuffet, in Catalogo mostra Venezia, Centro Internazionale delle Arti e del Costume, Palazzo Grassi, 15 giugno - 13 settembre 1964, Venezia, Centro Internazionale delle Arti e del Costume, 1964.
  18. ^ Eva di Stefano, Art Brut, in Arte dossier, n. 373, Firenze Milano, Giunti Editore S.p.A., 2020, pp. 5-6.
  19. ^ (EN) Hal Foster, Introduction: Positive Barbarism, in Brutal Aesthetics: Dubuffet, Bataille, Jorn, Paolozzi, Oldenburg, Princeton and Oxford, Princeton University Press, 2020.
  20. ^ Paola Gnani, Scrivere poesie dopo Auschwitz. Paul Celan e Theodor W. Adorno, n. 155, Firenze, Giuntina, 2010, ISBN 9788880573562.
  21. ^ Riccardo Barletta, E Dubuffet diventò un graffitaro, in Corriere della Sera, Milano, lunedì 27 maggio 2002, p. 27.
  22. ^ Renato Barilli, Dubuffet materiologo, in Incontri e testimonianze, n. 3, Bologna, Edizioni Alfa, 1962, pp. Risvolto IV di copertina.
  23. ^ Luigi Cavadini (direttore), Les enfants terribles. Il linguaggio dell’infanzia nell’arte 1909-2004. Museo Cantonale d'Arte, Lugano 10 ottobre 2004 – 16 gennaio 2005, in Uessearte. Servizi per l'arte, Como. URL consultato il 6 dicembre 2023.

Bibliografia[modifica | modifica wikitesto]

Cataloghi[modifica | modifica wikitesto]

  • (IT) Lorenza Trucchi, Jean Dubuffet, De Luca Editori d'Arte, Roma, 1965
  • (FR) Catalogue des travaux de Jean Dubuffet, Fascicule I-XXXVIII, Pauvert: Paris, 1965–1991
  • (FR) Sophie Webel, L’Œuvre gravé et les livres illustrés par Jean Dubuffet. Catalogue raisonné. Lebon: Paris 1991

Studi critici[modifica | modifica wikitesto]

  • (FR) George Limbour, L'Art brut de Jean Dubuffet (Tableau bon levain à vous de cuire la pâte), Paris, Éditions Galerie René Drouin, 1953
  • (EN) Michel Ragon, Dubuffet, New York: Grove Press, 1959 (tradotto dal francese da Haakon Chevalier)
  • (EN) Peter Selz, The Work of Jean Dubuffet, New York: The Museum of Modern Art, 1962
  • (FR) Max Loreau, Jean Dubuffet, délits déportements lieux de haut jeu, Paris: Weber, 1971
  • (DE) Andreas Franzke, Jean Dubuffet, Basel: Beyeler, 1976 (tradotto dal tedesco da Joachim Neugröschel)
  • (EN) Andreas Franzke, Jean Dubuffet, New York: Harry N. Abrams, Inc. 1981 (tradotto dal tedesco da Erich Wolf)
  • (FR) Michel Thévoz, Jean Dubuffet, Geneva: Albert Skira, 1986
  • (EN) Mildred Glimcher, Jean Dubuffet: Towards an Alternative Reality. New York: Pace Gallery 1987
  • (DE) Mechthild Haas, Jean Dubuffet, Berlin: Reimer, 1997
  • (FR) Jean Dubuffet, Paris: Centre Georges Pompidou, 2001
  • (EN) Laurent Danchin, Jean Dubuffet, New York: Vilo International, 2001
  • (EN) Jean Dubuffet: Trace of an Adventure, ed. by Agnes Husslein-Arco, München: Prestel, 2003
  • (DE) Michael Krajewski, Jean Dubuffet. Studien zu seinem Fruehwerk und zur Vorgeschichte des Art brut, Osnabrück: Der andere Verlag, 2004

Voci correlate[modifica | modifica wikitesto]

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Collegamenti esterni[modifica | modifica wikitesto]

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