Umberto I di Savoia

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Umberto I di Savoia
Umberto I d'Italia intorno al 1882
Re d'Italia
Stemma
Stemma
In carica9 gennaio 1878
29 luglio 1900
(22 anni e 201 giorni)
PredecessoreVittorio Emanuele II
SuccessoreVittorio Emanuele III
Nome completoUmberto Rainerio Carlo Vittorio Emanuele Giovanni Maria Ferdinando Eugenio
TrattamentoMaestà
Altri titoliRe di Sardegna
Duca di Savoia
Principe di Piemonte
Reggente della Colonia Eritrea
Reggente della Colonia di Somalia
Comandante generale delle Forze Armate
Custode della Sacra Sindone
Altri
NascitaTorino, 14 marzo 1844
MorteMonza, 29 luglio 1900 (56 anni)
Luogo di sepolturaPantheon, Roma
Casa realeSavoia
DinastiaSavoia-Carignano
PadreVittorio Emanuele II di Savoia
MadreMaria Adelaide d'Austria
ConsorteMargherita di Savoia
FigliVittorio Emanuele
ReligioneCattolicesimo
Firma

Umberto I di Savoia (Umberto Rainerio Carlo Vittorio Emanuele Giovanni Maria Ferdinando Eugenio di Savoia; Torino, 14 marzo 1844Monza, 29 luglio 1900) è stato Re d'Italia dal 1878 al 1900.

Figlio di Vittorio Emanuele II, primo re d'Italia, e di Maria Adelaide d'Austria, regina del Regno di Sardegna, morta nel 1855, il suo lungo regno fu contrassegnato da diversi eventi, che produssero opinioni e sentimenti contrastanti.

Il monarca viene ricordato positivamente da alcuni per il suo atteggiamento dimostrato nel fronteggiare sciagure come l'epidemia di colera a Napoli del 1884, prodigandosi personalmente nei soccorsi (perciò fu soprannominato "Re Buono"), e per la promulgazione del cosiddetto codice Zanardelli, che apportò alcune innovazioni nel codice penale, come l'abolizione della pena di morte. Fu invece duramente avversato da altri per il suo rigido conservatorismo e le sue tendenze autoritarie (inaspritesi negli ultimi anni del regno), il suo indiretto coinvolgimento nello scandalo della Banca Romana,[2] l'avallo alle repressioni dei moti popolari del 1898 e l'onorificenza concessa al generale Fiorenzo Bava Beccaris per la sanguinosa azione di soffocamento dei moti di Milano nel maggio del medesimo anno; tali azioni e condotte politiche che gli costarono più di tre attentati nell'arco del suo regno,[3] fino a quello che a Monza, il 29 luglio 1900, per mano dell'anarchico Gaetano Bresci, gli sarà fatale.

Proprio dagli anarchici, Umberto I ricevette il soprannome di "Re Mitraglia".[4] Fu anche il destinatario di uno dei biglietti della follia di Friedrich Nietzsche. Da Umberto I prende il nome l'omonimo stile artistico e architettonico.

Biografia[modifica | modifica wikitesto]

Infanzia e giovinezza[modifica | modifica wikitesto]

Umberto, da bambino, con la madre Maria Adelaide d'Austria, morta nel 1855

Umberto nacque il 14 marzo 1844 a Torino, da Vittorio Emanuele II, allora duca di Savoia ed erede al trono sardo (il quale, quello stesso giorno, compiva 24 anni), e da Maria Adelaide d'Austria. Fu battezzato con i nomi di Umberto Rainerio Carlo Emanuele Giovanni Maria Ferdinando Eugenio: il primo in onore del fondatore della dinastia sabauda, Umberto I Biancamano, l'ultimo a ricordo del più illustre esponente del ramo cadetto dei Savoia-Carignano, cui anch'egli apparteneva.

Suoi padrini di battesimo furono i nonni paterni, il re di Sardegna Carlo Alberto e sua moglie Maria Teresa d'Asburgo-Lorena, facendo le veci dei loro consuoceri, ovvero Ranieri d'Asburgo, viceré del Lombardo-Veneto e Maria Elisabetta di Savoia-Carignano, sorella di Carlo Alberto. Umberto ricevette subito il titolo di principe di Piemonte, da sempre attribuito ai primogeniti della casa regnante. La sua nascita fu molto festeggiata dal popolo piemontese, nonché dalla famiglia reale, che così poté vedere assicurata la discendenza maschile. Egli trascorse tutta la sua infanzia, insieme con il fratello minore Amedeo, nel castello di Moncalieri, dove ricevette una formazione essenzialmente militare, avendo come istitutore il generale Giuseppe Rossi e fra gli insegnanti alcuni altri militari; fu questa dura disciplina che ne formò il carattere, trasformandolo tuttavia in età adulta in una persona arida e dalle idee limitate, anche se altri lo ritennero "leale, aperto, gentile" e cordiale[5]. Molto legato alla madre, Umberto subì un profondo trauma quando questa morì prematuramente, il 20 gennaio 1855.

Intrapresa la carriera militare nel marzo del 1858, cominciò col rango di capitano. Successivamente prese parte alla seconda guerra d'indipendenza, distinguendosi nella battaglia di Solferino e San Martino del 1859. Divenuto erede al trono italiano dopo la nascita del Regno d'Italia il 17 marzo 1861, Umberto divenne maggiore generale nel 1863 e tenente generale nel 1864; non mancò di completare la sua formazione con numerosi viaggi all'estero, come quando nel 1863 accompagnò a Lisbona la sorella Maria Pia di Savoia che andava in sposa al re del Portogallo Luigi I, mentre l'anno successivo visitò alcune corti europee amiche dell'Italia; nel 1865 era in visita a Londra mentre a Torino scoppiavano i tumulti per protestare contro il trasferimento della capitale a Firenze.

Nel 1866 fu inoltre a Parigi, mandato da suo padre per un colloquio privato con l'imperatore Napoleone III circa l'imminente conflitto che stava per scoppiare con l'Austria. Appunto nel 1866, prese parte con il fratello Amedeo alla terza guerra d'indipendenza; si racconta che, mentre aspettava a Napoli di partire per il fronte, a una vecchina che piangeva per i due figli in guerra, abbia detto: Anche noi siamo due e non abbiamo più la mamma.

Raggiunto il fronte delle operazioni in Veneto, Umberto assunse il comando della XVI divisione di fanteria e partecipò con valore allo scontro di Villafranca del 24 giugno 1866, che seguì la disfatta di Custoza. Fu uno dei comandanti militari italiani, tra quelli entrati in azione, il cui reparto non fu costretto a ripiegare dagli austriaci, riuscendo piuttosto a respingere numerosi e violenti attacchi degli ulani austriaci e guadagnandosi, per questo, la medaglia d'oro al valor militare.

Matrimonio[modifica | modifica wikitesto]

Umberto di Savoia in gioventù[6]

In quegli anni Umberto intrattenne una relazione sentimentale con la duchessa Eugenia Attendolo Bolognini Litta[7], il cui legame fu rafforzato poi dalla nascita del figlio Alfonso[7] (morto giovane) e che durerà per tutta la vita. Umberto sapeva però che si sarebbe dovuto piegare a un matrimonio di convenienza, voluto dal padre per ragion di Stato. Infatti, subito dopo la fine della terza guerra d'indipendenza, che aveva portato all'unificazione del Veneto al Regno d'Italia, Vittorio Emanuele II pensò di riappacificarsi con la casata asburgica con un matrimonio politico, dopo la temporanea alleanza con la Prussia di Bismarck.

La candidata fu l'arciduchessa Matilde d'Asburgo-Teschen, che però morì tragicamente, ustionata dall'incendio del suo abito (ella stessa stava cercando di nascondere una sigaretta alla governante). Quindi, svanita questa possibilità, il Presidente del Consiglio di allora, Luigi Federico Menabrea, propose come sposa la cugina di Umberto, la principessa Margherita di Savoia, figlia di Ferdinando di Savoia-Genova, fratello del re, e di Elisabetta di Sassonia, di 17 anni. Dapprima riluttante, il re d'Italia alla fine acconsentì. Quando il principe ereditario fece la sua proposta a Margherita, questa rispose: Sai quanto sono orgogliosa di appartenere a Casa Savoia, e lo sarei doppiamente come tua moglie!

Matrimonio di Umberto con Margherita di Savoia,
Duomo di Torino, 22 aprile 1868

Umberto e Margherita si sposarono a Torino il 22 aprile 1868; furono le "nozze del secolo" di allora, e per quell'occasione re Vittorio Emanuele II creò il corpo dei corazzieri reali, che dovevano fungere da scorta al corteo regale, e l'Ordine della Corona d'Italia, con cui venivano premiati tutti coloro che si erano distinti al servizio della Nazione. Meta del viaggio di nozze furono alcune città italiane, per meglio far conoscere i futuri monarchi italiani alla popolazione; quindi, dopo un soggiorno nella Villa reale di Monza, i neosposi partirono per un viaggio ufficiale a Monaco di Baviera e a Bruxelles, dove vennero accolti calorosamente.

Margherita e Umberto durante il soggiorno napoletano

Rientrata in Italia, la coppia reale si stabilì a Napoli, poiché la principessa era incinta e si era deciso di farvi nascere l'erede al trono. La scelta della città partenopea non era casuale, ma seguiva una precisa strategia politica: rendere ancor più graditi i Savoia alle popolazioni meridionali, in parte nostalgiche dei Borbone. Il lieto evento avvenne l'11 novembre 1869: il neonato, chiamato Vittorio Emanuele come il nonno, fu nominato principe di Napoli.

Tuttavia il matrimonio tra Umberto e Margherita, pur con l'arrivo del figlio, non si rafforzò, poiché la principessa avrebbe trovato il marito nel suo appartamento a conversare con la sua amante, la duchessa Litta. Pare che Margherita avesse minacciato di tornare da sua madre, ma poi, convinta dal suocero (che avrebbe detto: "Solo per questo vuoi andartene?") e facendo appello alla sua forza di volontà, decise di rimanere accanto a Umberto, sebbene avesse dichiarato di non considerarlo più suo marito e ritenerlo soltanto il suo sovrano. Del resto Margherita doveva sapere da tempo della relazione che risaliva a prima del matrimonio. Quando i due si incontrarono la prima volta la duchessa aveva 25 anni e Umberto 18.[8] Il fallimento del matrimonio, noto solo in ristretti circoli di corte, fu mascherato con una parvenza di felicità usata convenientemente anche a fini politici. Infatti, dopo la breccia di Porta Pia il 20 settembre 1870 e la frettolosa visita di Vittorio Emanuele a Roma in dicembre, dopo l'inondazione del Tevere, furono Umberto e Margherita a rappresentare la famiglia reale nella futura capitale d'Italia.

Si deve soprattutto a Margherita il merito di aver posto le basi di una riconciliazione tra le due fazioni dell'aristocrazia romana: quella "nera" che, in fedele devozione al papa Pio IX, rifiutava di avere qualsiasi contatto con i sabaudi "usurpatori", e quella "bianca", di idee più liberali, che invece aveva caldeggiato l'unione della città con l'Italia. Il paravento del felice matrimonio sarebbe durato ancora a lungo e avrebbe raggiunto il culmine il 22 aprile 1893, quando furono celebrate con sfarzo le nozze d'argento. La mattina dei festeggiamenti a Roma furono sparati 101 colpi di cannone. Per tale occasione era prevista l'emissione di un francobollo speciale, detto appunto "nozze d'argento di Umberto I", che però non fu emesso.

Re d'Italia[modifica | modifica wikitesto]

Giuramento di Umberto I prestato a Palazzo Montecitorio

Alla morte del padre Vittorio Emanuele II, il 9 gennaio 1878, Umberto gli succedette col nome di Umberto I sul trono italiano e di Umberto IV su quello sabaudo, dal momento che suo padre aveva stabilito, malgrado l'unità nazionale, il prosieguo della tradizione nominale sul trono sabaudo. Nello stesso giorno egli emanò un proclama alla Nazione in cui affermava: Il vostro primo re è morto; il successore vi proverà che le istituzioni non muoiono! Il 17 gennaio 1878, giorno dei funerali del padre, Umberto I, accogliendo la petizione del Municipio di Roma, predispose l'inumazione della salma nel Pantheon di Roma, che fece diventare simbolicamente il mausoleo della famiglia reale e che ancora oggi accoglie le spoglie dei primi due sovrani d'Italia.

Roma era un luogo simbolico, dal momento che la sua presa aveva rappresentato il completamento dell'agognata unità nazionale. Infine, il 19 gennaio, avvenne il solenne giuramento sullo Statuto albertino, nell'aula di Montecitorio, alla presenza di senatori e deputati. Molti erano i problemi da affrontare per il secondo sovrano d'Italia: l'ostilità del Vaticano, che, dopo la morte di papa Pio IX il 7 febbraio dello stesso anno e l'elezione al soglio di Leone XIII, continuava a disconoscere il Regno d'Italia; il tentativo di bloccare sia i fermenti irredentistici e repubblicani che attraversavano il Paese sia i propositi anti-unitari di certi circoli politici occulti, nazionali ed esteri; l'assoluta necessità di creare un ampio fronte di riforme sociali di cui potessero godere le classi meno abbienti; la necessità di un rilancio dell'economia nazionale, già da troppo tempo stagnante; infine, l'urgentissimo problema di porre fine all'isolamento internazionale dell'Italia e di aumentarne il prestigio in politica estera.

Ritratto di S.M. Re Umberto I, di Pasquale Di Criscito, 1878

Giurò di agire, già nel suo primo discorso della Corona, "nel rispetto delle leggi". Uno dei primi provvedimenti che Umberto I dovette affrontare da re furono le dimissioni, il 9 marzo, del gabinetto di Agostino Depretis, leader della Sinistra storica; il re, non ritenendo conveniente riaffidargli l'incarico, scelse come nuovo Presidente del consiglio Benedetto Cairoli, capo della sinistra moderata e politico da lui molto stimato.

Il problema più spinoso che il suo governo dovette affrontare fu la crisi nei Balcani, nata dalla recente guerra tra Russia e Turchia, fatto per cui fu convocato dal cancelliere tedesco Bismarck il Congresso di Berlino. L'Italia, nel timore di prendere impegni troppo gravosi, non vi ottenne nulla.

Primo tentativo di assassinio[modifica | modifica wikitesto]

Re Umberto I d'Italia, ritratto da Luigi Da Rios nel 1878

Appena salito al trono, Umberto I predispose subito un giro nelle maggiori città del Regno al fine di mostrarsi al popolo e guadagnare una parte della notorietà di cui aveva goduto il padre durante il Risorgimento. Venne accompagnato dalla moglie Margherita, dal figlio Vittorio Emanuele e dal Presidente del Consiglio Benedetto Cairoli.

Partito da Roma il 6 luglio 1878, il 10 luglio fu a La Spezia, dall'11 al 30 luglio soggiornò a Torino, il 30 fu a Milano, poi a Brescia e il 16 settembre si recò a Monza, dove assistette all'inaugurazione del primo monumento dedicato al padre Vittorio Emanuele II. Il 4 novembre i reali arrivarono a Bologna: il 7 incontrarono il poeta Giosuè Carducci, di idee repubblicane, il quale, rimasto incantato dalla grazia e dalla bellezza della regina Margherita, scrisse per lei pagine di grande ammirazione e le dedicò la celebre ode Alla regina d'Italia.

Tre giorni dopo Umberto e Margherita erano a Firenze, il 9 novembre a Pisa e a Livorno, il 12 novembre si recarono ad Ancona, l'indomani a Chieti e poi a Bari. Il 16 novembre, alla stazione di Foggia, un certo Alberigo Altieri tentò di lanciarsi verso il sovrano. Venne fermato in tempo, tanto che quasi nessuno si avvide del fatto e nemmeno la stampa ne fece parola. Tuttavia un'indagine della polizia portò a scoprire come il giovane non avesse agito da solo, ma nell'ambito di «un complotto per l'assassinio dell'Augusto sovrano» che aveva «il proposito di farne eseguire il tentativo nelle diverse città visitate».[9] Era l'avvisaglia di quanto sarebbe accaduto il giorno dopo.

L'attentato di Giovanni Passannante a Napoli in un giornale dell'epoca

Giunto a Napoli il 17 novembre 1878, Umberto subì un tentativo di assassinio che fece molto più scalpore: si trovava, insieme alla moglie, il figlio e Cairoli, su una carrozza scoperta che si stava facendo largo tra due ali di folla, quando improvvisamente venne attaccato con un coltello dall'anarchico lucano Giovanni Passannante, il quale non riuscì nel proprio intento. Nel tentativo di uccidere il monarca, Passannante urlò: «Viva Orsini, viva la repubblica universale».[10] Il re riuscì a difendersi e un ufficiale dei Corazzieri del seguito si scagliò contro l'attentatore, ferendolo alla testa con la sciabola (il re subì un leggero taglio a un braccio), mentre Cairoli, nel tentativo di bloccare l'aggressore, veniva ferito a una coscia. Il tentato assassinio generò numerosi cortei di protesta, sia contro sia a favore dell'attentatore, e non mancarono scontri tra forze dell'ordine e anarchici. A seguito del tentato regicidio, un mese dopo l'allora Capo della Polizia Luigi Berti fu costretto a rassegnare le dimissioni.

Il poeta Giovanni Pascoli, durante una riunione di socialisti a Bologna, cominciò la pubblica lettura di un componimento, consegnatogli da una persona presente alla riunione, inneggiante a Passannante. Accortosi del contenuto gettò via la carta ed espresse parole di sdegno.[11] Pascoli verrà arrestato, in seguito, per aver protestato contro la condanna di alcuni anarchici che avevano manifestato in favore dell'attentatore.[12] L'anarchico venne condannato a morte, ma Umberto I commutò la sentenza in carcere a vita. Le pessime condizioni di Passannante in carcere suscitarono, comunque, polemiche da parte di alcuni esponenti politici.[13]

Dopo l'attentato, il re, riconoscente, assegnò al Presidente del Consiglio la medaglia d'oro al valor militare, ma il Parlamento, pur ammirando il coraggio e la devozione di Cairoli, ne rimproverò il governo circa la cattiva gestione della politica interna, in particolare riguardo alla sicurezza del re e dello Stato; fu quindi presentata un'interrogazione parlamentare che si concluse l'11 dicembre di quell'anno con le dimissioni del ministero, il quale fu nuovamente affidato a Depretis.

Moneta da 100 lire d'oro raffigurante Umberto I

Depretis, tuttavia, fu battuto alla Camera dei deputati il 3 luglio 1879 e dovette dare di nuovo le dimissioni: il governo passò nuovamente a Cairoli, il quale, però, non avendo la maggioranza parlamentare necessaria, dovette coinvolgere parte della Sinistra moderata guidata da Depretis, che fu nominato ministro dell'interno. Uno dei problemi più urgenti che il governo dovette affrontare fu l'abolizione della tassa sul macinato, che aveva sì permesso il raggiungimento del pareggio di bilancio nel 1876, ma aveva causato l'ostilità della popolazione per l'aggravio sui beni di prima necessità, ovvero i cereali.

Lo stesso Umberto, il 26 maggio 1880, all'apertura della XIV legislatura parlamentare, pronunciò un discorso in cui si augurava che il Parlamento desse seguito all'abolizione della tassa sul macinato, del corso forzoso e alla riforma elettorale. Così, dopo una serrata discussione parlamentare, il 30 giugno 1880 la Camera votò la riduzione progressiva della tassa sul macinato (che sarebbe stata abolita definitivamente quattro anni dopo), mentre il 23 febbraio 1881 fu abolito il corso forzoso, in vigore dal 1866.

Nello stesso periodo i reali visitarono ufficialmente la Sicilia e la Calabria; quando giunse a Reggio Calabria, il sovrano si lasciò andare a un bagno di folla, dicendo alle forze di sicurezza, preoccupate della sua incolumità: Fate largo, sono in mezzo al mio popolo!

Triplice alleanza e politica coloniale[modifica | modifica wikitesto]

Stampa che celebra la Triplice alleanza (1882) con le immagini dei sovrani di Italia (Umberto I), Germania (Guglielmo II) e Austria (Francesco Giuseppe)
Foto scattata in occasione della visita a Roma nel 1888 del neo imperatore di Germania Guglielmo II. Si riconoscono Umberto I al centro in piedi e l'imperatore seduto sulla sedia fra due personaggi; quello a destra è l'erede al trono d'Italia Vittorio Emanuele.

Nell'ottica della visibilità e del peso internazionale, Umberto I fu un acceso sostenitore della Triplice alleanza, soprattutto dopo l'occupazione francese della Tunisia nel 1881 e la successiva Alleanza dei tre imperatori tra l'Austria, la Germania e la Russia. Proprio in questo periodo, inoltre, il governo di Agostino Depretis venne a conoscenza che papa Leone XIII stava interpellando i ministri degli esteri stranieri a proposito di un loro possibile intervento per ripristinare lo Stato Pontificio.

L'appoggio dell'Austria, la nazione cattolica più prestigiosa, sarebbe stato di grande utilità per l'Italia al fine di stornare un'eventuale azione europea in aiuto del papato.[14] Per l'Italia, la conclusione di un'alleanza con due potenze conservatrici sarebbe valsa sia ad assicurare la monarchia sabauda di fronte ai movimenti repubblicani di ispirazione francese sia ad assicurarla dall'intervento di potenze straniere che avessero voluto ristabilire il potere temporale del papa.[15]

L'imperatore d'Austria Francesco Giuseppe (seduto secondo da sinistra) e il re d'Italia Umberto I (seduto secondo da destra) al Teatro dell'Opera di Vienna nel 1881

In appoggio alle iniziative diplomatiche, fra il 21 e il 31 ottobre 1881 Umberto I e la moglie Margherita fecero visita a Vienna all'imperatore Francesco Giuseppe e all'imperatrice Elisabetta. I monarchi italiani fecero un'ottima impressione alla corte viennese, specie Margherita, che a buon diritto, per grazia ed eleganza, venne paragonata all'imperatrice. Lo stesso Umberto, rigido, severo e austero, fece una così buona impressione che il cugino e antico avversario, Francesco Giuseppe, gli concesse la nomina a colonnello onorario del 28º Reggimento fanteria. Il gesto non mancò di suscitare polemiche in Italia presso l'opinione pubblica, visto che il reggimento austriaco di cui il re era stato fatto colonnello era lo stesso che aveva partecipato alla battaglia di Novara del 1849 e all'occupazione di Brescia, partecipando attivamente alla spietata repressione che causò la morte di migliaia di uomini, donne e bambini bresciani.

Di fronte alle insistenze della Germania, il ministro degli Esteri austriaco Gustav Kálnoky cedette all'idea di un'intesa con l'Italia e il 20 maggio 1882 fu firmato il primo trattato della Triplice alleanza. Umberto inoltre appoggiò lo slancio coloniale in Africa, con l'occupazione dell'Eritrea (1885-1896) e della Somalia (1889-1905). Il governo italiano aveva già acquistato, il 10 marzo 1882, la baia di Assab dall'armatore Rubattino, il quale, a sua volta, l'aveva comperata dal sultano locale come scalo per le proprie navi. Quindi si pattuì con il governo inglese la successiva occupazione della città portuale di Massaua, avvenuta il 5 febbraio 1885, nell'ottica di una profonda penetrazione in Sudan, da concordare con gli inglesi, impegnati nel sedare la rivolta mahdista. Ma Londra respinse l'offerta d'aiuto italiana, non più necessaria, e l'Italia si trovò "incatenata ad una roccia del Mar Rosso" senza concrete prospettive espansionistiche. Gli italiani cercarono allora di compensare il loro magro bottino coloniale occupando l'entroterra di Massaua, in direzione di Asmara, ma stavolta l'ostacolo fu rappresentato dai guerrieri etiopi del negus Giovanni IV, che il 27 gennaio 1887 tendevano un agguato a una colonna italiana di 500 uomini comandata dal colonnello De Cristoforis presso Dogali, annientandola.

Solo pochi scamparono, e vennero ricevuti con tutti gli onori al Quirinale da Umberto e dalla moglie Margherita: un onore che non era toccato nemmeno ai reduci del Risorgimento. Malgrado ciò, la notizia dell'eccidio di Dogali ebbe l'effetto di una doccia gelata su Roma, dove spense gli ardori colonialisti e compattò l'opinione pubblica a chiedere la fine dell'avventura africana. Tutto infatti lo lasciava presagire: dimessosi il De Robilant, Depretis, che era stato messo in minoranza e che aveva malvisto l'impresa abissina, riottenne dal re l'incarico di formare il governo, grazie anche all'appoggio di Francesco Crispi e Giuseppe Zanardelli, a capo della cosiddetta Pentarchia, la più forte formazione politica di sinistra. Tuttavia, nell'agosto dello stesso anno, il presidente del Consiglio morì e al suo posto andò proprio Crispi, il quale, al contrario del predecessore, era un convinto assertore della politica africana. Lo dimostrò inviando in Eritrea un contingente di 20 000 uomini al comando del generale Antonio Baldissera e chiedendo all'ambasciatore italiano ad Addis Abeba, conte Pietro Antonelli, di adoperarsi affinché l'Italia potesse trarre partito dalle lotte intestine che dilaniavano l'Etiopia.

Ciò è testimoniato anche da due lettere inviate a Umberto, rispettivamente dal negus Giovanni IV e dal suo acerrimo nemico, il re dello Scioa Menelik: nella prima, l'imperatore etiope cercava un accordo con il re italiano contro Menelik che, a sua volta, accusava Giovanni di averlo sobillato contro gli italiani. Le cose subirono una svolta quando, il 10 marzo 1889, Giovanni IV morì in battaglia contro i Dervisci del Sudan; subito Menelik ne prese il posto come imperatore, con il nome di Menelik II, ignorando i diritti di ras Mangascià, figlio naturale del defunto negus. Per meglio puntellare il suo potere, Menelik decise di patteggiare con l'Italia, accondiscendendo a firmare, il 2 maggio 1889, il trattato di Uccialli: in esso vennero infatti riconosciuti all'Italia i territori occupati in Eritrea e - a causa di un malinteso sulla traduzione dell'articolo 17 dello stesso trattato (che prevedeva, nel testo italiano, per il negus l'obbligo di farsi rappresentare da Roma per trattare con le altre potenze europee, mentre in quello etiope ciò era solo facoltativo) -anche il protettorato sull'Etiopia, in cambio di quattro milioni di lire.

L'accordo fu poi siglato con l'invio nella capitale italiana di una delegazione etiope guidata da ras Makonnen, cugino dell'imperatore, che aveva il compito di portare il trattato e pattuire il prestito. I membri della delegazione furono prima ricevuti al Quirinale dai sovrani, poi vennero mandati in giro per le principali città italiane per visitare arsenali, caserme, industrie belliche, al fine di impressionarli e mostrare la potenza militare del Paese. La missione ripartì il 2 dicembre dello stesso anno, riportando in patria il prestito e svariati doni, tra cui un quadro che raffigurava l'Ascensione di Gesù al cielo con il re, la regina e Crispi in preghiera, mentre, da parte loro, gli etiopi avevano portato in dono un elefante. Inoltre, nel 1890 anche alcuni sultanati della Somalia accettarono il protettorato italiano, mentre quello stesso anno fu fondata ufficialmente la Colonia eritrea.

Ma il malinteso diplomatico (noto come "beffa di Uccialli"), avrebbe non molto tempo dopo gettato le premesse della prima campagna d'Africa Orientale. Tutto ebbe inizio nel dicembre 1893, quando Menelik non si servì del governo di Roma per trattare alcune questioni commerciali con la Francia, denunciando il trattato firmato pochi anni prima, e terminò Il 1º marzo 1896 con la decisiva battaglia di Adua, catastrofica per le armi italiane. In Italia i contraccolpi furono gravissimi: Crispi fu costretto a dimettersi e scomparve dalla scena politica; al suo posto andò Antonio di Rudinì, che dovette firmare la successiva pace di Addis Abeba del 26 ottobre 1896, che prevedeva l'annullamento del trattato di Uccialli e la piena sovranità dell'Etiopia, ma riconosceva agli italiani tutti i territori africani precedentemente acquisiti. Codesta disfatta provocò la fine temporanea dell'avventura coloniale italiana, che si arrestò fino al 1911, con la conquista della Libia.

Politica interna[modifica | modifica wikitesto]

Umberto I ritratto da Pietro Tremolada[16]

Per quanto riguarda la politica nazionale, Umberto I affiancò l'operato del governo di Francesco Crispi nel suo progetto di rafforzamento interno dello Stato. È durante il suo regno che si definisce la figura del Presidente del Consiglio (1890): infatti Umberto non presiedeva il Consiglio dei ministri, ma si limitava a ricevere il presidente dopo le riunioni di gabinetto e, sentita la sua relazione, a firmare i provvedimenti del ministero, assumendosi, con il tempo, anche responsabilità che, anche se condivise da lui personalmente, erano collettive e parlamentari. La sua attività politica fu anche contrassegnata da un atteggiamento autoritario, dovuto forse alla grave "crisi di fine secolo", dove insurrezioni e moti, come quelli dei Fasci dei Lavoratori in Sicilia e l'insurrezione della Lunigiana (1894) lo portarono a firmare provvedimenti autoritari, come la deliberazione dello stato d'assedio a fini repressivi. A seguito di questi e di altri gravi avvenimenti si procedette allo scioglimento, da parte del governo Crispi, del Partito Socialista, delle Camere del Lavoro e delle Leghe Operaie.

Umberto appoggiò quindi i governi ultra conservatori di Antonio di Rudinì (1896-1898) e di Luigi Pelloux (1898-1900) che rafforzarono le tensioni sociali in tutta l'Italia. Sotto Umberto I avvenne d'altronde l'introduzione del codice penale Zanardelli (1889), un corpo normativo liberale che portò alcune riforme, come l'abolizione della pena di morte e una certa libertà di sciopero. Il progetto venne approvato con il consenso pressoché unanime di ambedue le Camere.

Durante il suo regno, il sovrano portò solidarietà alle popolazioni colpite da calamità naturali, intervenendo in prima persona con aiuti materiali e opere risanatrici. Già nel 1872, quando era ancora principe, si recò in Campania a seguito dell'eruzione del Vesuvio. Appena salito al trono, nel 1879, assistette i siciliani colpiti dall'Etna e nel 1882 andò in Veneto, deturpato da piogge torrenziali. Nel 1884 giunse a Napoli, afflitta dal colera, e in quell'occasione pronunciò la famosa frase, incisa sulla stele a ricordo del triste evento: "A Pordenone si fa festa, a Napoli si muore. Vado a Napoli".

Il 1888 vide un gesto politicamente importante e personalmente coraggioso: Umberto I visitò la Romagna, una terra considerata tradizionalmente ostile alla monarchia per la prevalenza di repubblicani, socialisti e di anarchici. In preparazione, vennero svolte apposite manovre militari a scopo dissuasivo. In realtà la visita si svolse senza incidenti perfino a Forlì, patria di Aurelio Saffi, uomo di riferimento dei repubblicani. Ad accogliere il re intervenne anche l'ex Presidente del Consiglio Alessandro Fortis.

Nel 1893 Umberto I fu implicato nello scandalo della Banca Romana, ove il re fu accusato di aver contratto elevati debiti di cui il Presidente del consiglio Giovanni Giolitti gli avrebbe garantito la copertura, per la lealtà che giurò alla monarchia e per l'appoggio che egli aveva avuto da casa Savoia negli anni precedenti.[2]

Secondo attentato[modifica | modifica wikitesto]

Illustrazione che ricostruisce l'attentato dell'anarchico Pietro Acciarito a Umberto I

Il 22 aprile 1897 il sovrano subì un secondo attentato da parte di Pietro Acciarito. L'anarchico si mescolò tra la folla che salutava l'arrivo di Umberto I presso l'ippodromo delle Capannelle a Roma e si buttò verso la sua carrozza armato di coltello. Il re notò tempestivamente l'attacco e riuscì a schivarlo, rimanendo illeso. Acciarito venne arrestato e condannato all'ergastolo. Analogamente a Passannante, la sua pena fu molto rigida ed ebbe gravi conseguenze sulla sua salute mentale.

Come il precedente tentato regicidio, si ipotizzò una cospirazione anti-monarchica (sebbene Acciarito avesse smentito tutto, dichiarando di aver agito da solo)[17] e vennero arrestati diversi esponenti socialisti, anarchici e repubblicani, che furono sospettati di aver avuto collusioni con l'estremista. Tra questi venne incarcerato un altro anarchico di nome Romeo Frezzi, un amico di Acciarito, solo perché in possesso di una foto dell'attentatore.[18]

Frezzi morì al terzo giorno d'interrogatorio. Sorsero alcune illazioni sul suo decesso (suicidio e aneurisma) ma l'autopsia confermò che la morte avvenne per sevizie subite dagli agenti di pubblica sicurezza, nel tentativo di estorcere una confessione di connivenza con Acciarito.[19] La vicenda suscitò sommosse popolari contro la monarchia.

Moti di Milano[modifica | modifica wikitesto]

Lo stesso argomento in dettaglio: Moti di Milano.
Fiorenzo Bava Beccaris

Il re fu criticato dall'opposizione anarchico-socialista e repubblicana italiana per aver insignito con la Gran Croce dell'Ordine militare di Savoia il generale Fiorenzo Bava Beccaris che il 7 maggio 1898 aveva ordinato l'uso dei cannoni contro la folla a Milano per disperdere i partecipanti alle manifestazioni di protesta popolare (la cosiddetta protesta dello stomaco) causati dal forte aumento del prezzo del grano in seguito alla tassa sul macinato (1868-1884) e alla guerra ispano-americana (1898)[senza fonte], compiendo un massacro. La repressione costò più di cento morti e oltre cinquecento feriti secondo le stime della polizia dell'epoca, sebbene alcuni storici ritengano che tali stime siano state approssimate per difetto.[20]

Dopo i fatti di Milano, il governo del generale Pelloux intraprese una svolta autoritaria, accingendosi a sciogliere le organizzazioni socialiste, cattoliche e radicali e a limitare la libertà di stampa e di riunione. Esponenti politici come Filippo Turati e Andrea Costa, accusati di aver promosso la rivolta, furono arrestati e, in breve tempo, scarcerati. Lo storico Ettore Ciccotti simpatizzò apertamente per gli insorti milanesi e, con l'accusa di propaganda sovversiva, fu rimosso dall'incarico di docente presso l'accademia scientifico-letteraria di Milano e costretto a fuggire in Svizzera per sottrarsi all'arresto.[21]

Tale atteggiamento venne però bloccato alla Camera dove, ricorrendo all'ostruzionismo, i socialisti costrinsero Pelloux a sciogliere le Camere e ad andare a nuove elezioni, che videro una decisa avanzata della sinistra. Pelloux si dimise e Umberto I, in rispetto delle libertà garantite dallo Statuto, accettò di assegnare la carica di Presidente del Consiglio a Giuseppe Saracco, che diede il via a una politica di riconciliazione nazionale.

La premiazione del generale Bava Beccaris fu la causa dell'ultimo e letale attentato al monarca per opera di Gaetano Bresci.[22]

Assassinio[modifica | modifica wikitesto]

Lo stesso argomento in dettaglio: Regicidio di Umberto I.
Il re Umberto I di Savoia e la regina Margherita di Savoia, mentre scendono la scalinata d'ingresso della Villa Reale a Monza, nel 1896
La copertina della Domenica del Corriere di Achille Beltrame con l'uccisione di Umberto I a Monza il 29 luglio 1900

Il 29 luglio 1900 Umberto I fu invitato a Monza alla cerimonia di chiusura del concorso ginnico organizzato dalla società sportiva Forti e Liberi; egli non era tenuto a presenziare, ma fu convinto dalla circostanza che al saggio sarebbero state presenti le squadre di Trento e Trieste, ai cui atleti - infatti - stringendo le mani, disse: "Sono lieto di trovarmi tra italiani" (frase che non passò inosservata e che scatenò applausi scroscianti). Sebbene fosse solito indossare una cotta di maglia protettiva sotto la camicia, a causa del gran caldo e contrariamente ai consigli degli attendenti alla sicurezza, quel giorno fatidico Umberto non la indossò. Tra la folla si trovava anche l'attentatore, Gaetano Bresci, un anarchico pratese emigrato negli Stati Uniti, con in tasca una rivoltella a cinque colpi.

Il sovrano s'intrattenne per circa un'ora ed era di ottimo umore: «Fra questi giovanotti in gamba mi sento ringiovanire».[23] Decise di andarsene verso le 22:30 e si recò verso la carrozza, mentre la folla applaudiva e la banda intonava la Marcia reale.

Approfittando della confusione, Bresci fece un balzo in avanti con la pistola in pugno e sparò alcuni colpi in rapida successione. Non si è mai appurato con precisione quanti, ma la maggior parte dei testimoni disse di aver sentito l'eco di almeno tre. Umberto difatti venne raggiunto a una spalla, al polmone e al cuore. Ebbe appena il tempo di mormorare: «Avanti, credo di essere ferito»,[24] prima di cadere riverso sulle ginocchia del generale Ponzio Vaglia, che gli sedeva di fronte in carrozza.

Subito dopo i carabinieri, comandati dal maresciallo Locatelli, riuscirono a sottrarre il Bresci al linciaggio della folla, traendolo in arresto. Intanto la carrozza col sovrano ormai cadavere era giunta alla reggia di Monza; la regina, avvisata, si precipitò all'ingresso gridando: «Fate qualcosa, salvate il re!»[25] Ma non c'era ormai più nulla da fare, Umberto era già spirato.

Il vagone funebre che trasportò la salma del re da Monza a Roma

Il regicidio suscitò in Italia un'ondata di deplorazione[26] e di paura, tanto da indurre gli stessi ambienti anarchici e socialisti a prenderne le distanze; Filippo Turati, ad esempio, rifiutò di difendere il regicida in tribunale. Molti di coloro che l'avevano criticato in vita, tra cui il liberale Papafava, ebbero parole di cordoglio per il defunto («Gli volevamo più bene di quanto credessimo») e il repubblicano Bovio disse che l'indignazione suscitata dall'attentato aveva allungato la vita alla monarchia di parecchi decenni. Il poeta Giovanni Pascoli scrisse di getto l'inno Al Re Umberto, dedicato al sovrano scomparso.

La tomba di Umberto I al Pantheon, Roma

Il 9 agosto venne celebrato il funerale religioso a Roma: nonostante fosse un giovedì torrido, due gremite ali di folla seguirono il feretro. Tuttavia si era instaurato un tale clima di psicosi che bastò un mulo imbizzarrito di una rappresentanza degli Alpini per scatenare un fuggi-fuggi generale al grido "Gli anarchici!" Tale fu il terrore che questo coinvolse anche il gruppo dei principi, tanto che Nicola I del Montenegro balzò davanti al genero Vittorio per fargli da scudo contro un eventuale attentato.[27]

Ristabilita la calma, la salma del defunto re venne tumulata nel Pantheon accanto a quella del padre; il 13 agosto diventò giorno di lutto nazionale.

Molte furono le voci che si alzarono - contro o a favore - il gesto di Bresci, immediatamente messe a tacere dall'introduzione del nuovo reato di "apologia di regicidio", per il quale vennero tratti in arresto due religiosi: don Arturo Capone, parroco a Salerno, e fra Giuseppe Volponi, un francescano di Roma.[28] Quest'ultimo fu condannato a 8 mesi di carcere e a mille lire di multa (28 agosto).

Bresci venne processato il 29 agosto e condannato il giorno stesso all'ergastolo, in quanto la pena di morte era in vigore solo per alcuni reati militari, puniti dal Codice penale militare di guerra.[29] Bresci morì suicida il 22 maggio 1901 in circostanze molto dubbie (impiccato nella propria cella), sebbene si dicesse che fosse rimasto vittima di un pestaggio da parte delle guardie.[30]

Il 29 luglio 1901, a un anno dalla sua uccisione, la memoria di Umberto I fu solennemente celebrata a Monza con grandi eventi: un imponente pellegrinaggio, deposizione di numerose corone, discorsi, messe, concerti, e la declamazione dell'ode XXIX Luglio di Adolfo Resplendino da parte dell'allora quattordicenne Paola Pezzaglia.[31]

Il luogo dell'attentato, a Monza, è segnato dalla Cappella espiatoria in memoria del re ucciso, costruita nel 1910 su disegno dell'architetto Giuseppe Sacconi per volontà del figlio di Umberto, Vittorio Emanuele III.

Discendenza[modifica | modifica wikitesto]

Umberto I e Margherita di Savoia ebbero un solo figlio:

Dalla sua amante, Eugenia Attendolo Bolognini Litta, ebbe un figlio illegittimo:

  • Alfonso (1870-1891), riconosciuto come figlio proprio dal duca Giulio Litta Visconti Arese.

Ascendenza[modifica | modifica wikitesto]

Genitori Nonni Bisnonni Trisnonni
Carlo Emanuele di Savoia-Carignano Vittorio Amedeo II di Savoia-Carignano  
 
Giuseppina Teresa di Lorena-Armagnac  
Carlo Alberto di Savoia  
Maria Cristina di Sassonia-Curlandia Carlo di Sassonia  
 
Francesca Korwin-Krasińska  
Vittorio Emanuele II di Savoia  
Ferdinando III di Toscana Leopoldo II d'Asburgo-Lorena  
 
Maria Ludovica di Borbone-Napoli  
Maria Teresa d'Asburgo-Toscana  
Luisa Maria Amalia di Borbone-Due Sicilie Ferdinando I di Borbone  
 
Maria Carolina d'Asburgo-Lorena  
Umberto I di Savoia  
Leopoldo II d'Asburgo-Lorena Francesco I di Lorena  
 
Maria Teresa d'Asburgo  
Ranieri Giuseppe d'Asburgo-Lorena  
Maria Ludovica di Borbone-Napoli Carlo III di Spagna  
 
Maria Amalia di Sassonia  
Maria Adelaide d'Asburgo-Lorena  
Carlo Emanuele di Savoia-Carignano Vittorio Amedeo II di Savoia-Carignano  
 
Giuseppina Teresa di Lorena-Armagnac  
Maria Elisabetta di Savoia-Carignano  
Maria Cristina di Sassonia-Curlandia Carlo di Sassonia  
 
Francesca Korwin-Krasińska  
 

Ascendenza patrilineare[modifica | modifica wikitesto]

  1. Umberto I, conte di Savoia, circa 980-1047
  2. Oddone, conte di Savoia, 1023-1057
  3. Amedeo II, conte di Savoia, 1046-1080
  4. Umberto II, conte di Savoia, 1065-1103
  5. Amedeo III, conte di Savoia, 1087-1148
  6. Umberto III, conte di Savoia, 1136-1189
  7. Tommaso I, conte di Savoia, 1177-1233
  8. Tommaso II, conte di Savoia, 1199-1259
  9. Amedeo V, conte di Savoia, 1249-1323
  10. Aimone, conte di Savoia, 1291-1343
  11. Amedeo VI, conte di Savoia, 1334-1383
  12. Amedeo VII, conte di Savoia, 1360-1391
  13. Amedeo VIII (Antipapa Felice V), duca di Savoia, 1383-1451
  14. Ludovico, duca di Savoia, 1413-1465
  15. Filippo II, duca di Savoia, 1443-1497
  16. Carlo II, duca di Savoia, 1486-1553
  17. Emanuele Filiberto, duca di Savoia, 1528-1580
  18. Carlo Emanuele I, duca di Savoia, 1562-1630
  19. Tommaso Francesco, principe di Carignano, 1596-1656
  20. Emanuele Filiberto, principe di Carignano, 1628-1709
  21. Vittorio Amedeo I, principe di Carignano, 1690-1741
  22. Luigi Vittorio, principe di Carignano, 1721-1778
  23. Vittorio Amedeo II, principe di Carignano, 1743-1780
  24. Carlo Emanuele, principe di Carignano, 1770-1800
  25. Carlo Alberto, re di Sardegna, 1798-1849
  26. Vittorio Emanuele II, re d'Italia, 1820-1878
  27. Umberto I, re d'Italia, 1844-1900

Titoli[modifica | modifica wikitesto]

Stendardo del Re d'Italia

Sua Maestà Umberto I, per grazia di Dio e per volontà della Nazione:

Monumenti a Umberto I[modifica | modifica wikitesto]

Monumenti a Umberto I
Stresa
Roma
Napoli
Verona
Caltanissetta

Onorificenze[modifica | modifica wikitesto]

S.M. Re Umberto I con le vesti dell'Ordine della Giarrettiera[32]

Onorificenze italiane[modifica | modifica wikitesto]

Gran maestro dell'Ordine supremo della Santissima Annunziata - nastrino per uniforme ordinaria
— 9 gennaio 1878 (già Cavaliere, 30 gennaio 1859)
Gran maestro dell'Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro - nastrino per uniforme ordinaria
— 9 gennaio 1878 (già Cavaliere di gran croce decorato del gran cordone, 30 gennaio 1859)
Medaglia d'oro al valor militare - nastrino per uniforme ordinaria
«Per brillantissimo coraggio dimostrato nel condurre la sua divisione al fuoco e per le savie disposizioni date pel suo piazzamento nel fatto d'armi di Villafranca il 24 giugno»
— 6 dicembre 1866[33]
Medaglia commemorativa delle campagne delle guerre d'indipendenza - nastrino per uniforme ordinaria
«con barretta "1866"»
— 6 dicembre 1866

Onorificenze straniere[modifica | modifica wikitesto]

Note[modifica | modifica wikitesto]

  1. ^ Ferma restando la genealogia dei Savoia, il tema della successione ad Umberto II come capo del casato è oggetto di controversia tra i sostenitori di opposte tesi rispetto all'attribuzione del titolo a Vittorio Emanuele piuttosto che a Amedeo: infatti il 7 luglio 2006 la Consulta dei senatori del Regno, con un comunicato, ha dichiarato decaduto da ogni diritto dinastico Vittorio Emanuele ed i suoi successori ed ha indicato duca di Savoia e capo della famiglia il duca d'Aosta, Amedeo di Savoia-Aosta, fatto contestato anche sotto il profilo della legittimità da parte dei sostenitori di Vittorio Emanuele. Per approfondimenti leggere qui.
  2. ^ a b Sergio Romano, La storia sul comodino: personaggi, viaggi, memorie, Greco & Greco Editori, Milano, p. 87.
  3. ^ Benedetto Croce, Storia D'Italia dal 1871 al 1915, Bibliopolis, Napoli, 2004.
  4. ^ Napoleone Colajanni, L'Italia nel 1898, Galzerano, 1998, p. 7.
  5. ^ Si veda a questo proposito quanto riferisce Carlo Casalegno, "La regina Margherita", Einaudi, Torino, 1956, pag. 27. "Nessuno avrebbe detto che Umberto sarebbe diventato la figura più cara, più cordiale e più amata, durante ventidue anni, nell'intero Regno": Giovanni Artieri, "Cronaca del Regno d'Italia", vol. I, Mondadori, Milano, 1977, pag. 145 e "passim". Sulla cordialità, la simpatia e popolarità di Umberto I si veda per tutti Edmondo De Amicis, "Cuore", La Sorgente, Milano, 1974, pag. 197 ss.
  6. ^ Fratelli D'Alessandri
  7. ^ a b RITRATTO DELLA DUCHESSA EUGENIA LITTA VISCONTI ARESE BOLOGNINI ATTENDOLO lombardiabeniculturali.it
  8. ^ Su tutto l'episodio si veda: Carlo Casalegno, La Regina Margherita, cit.", p. 87.
  9. ^ Lettera del prefetto di Foggia al ministro dell'Interno Giuseppe Zanardelli, 23 novembre 1878, in Archivio della Società Nazionale di Mutuo Soccorso Ferrovieri Milano. L'operazione portò all'arresto di due presunti complici di Altieri. Si noti come la data della missiva sia posteriore all'attentato di Napoli.
  10. ^ Giuseppe Galzerano, Giovanni Passannante, Galzerano Editore, Casalvelino Scalo, 2004, p. 396.
  11. ^ Maria Pascoli, "Lungo la vita di Giovanni Pascoli", Mondadori, Milano, 1961, cap. IV.
  12. ^ Giuseppe Galzerano, Giovanni Passannante, Galzerano Editore, Casalvelino Scalo, 2004, p. 270.
  13. ^ Paolo Pinto, Il Savoia che non voleva essere re, Piemme, Milano, 2002, p.108.
  14. ^ May, La monarchia asburgica. Bologna, 1991, p. 392.
  15. ^ Taylor, L'Europa delle grandi potenze, Bari, 1961, p. 397.
  16. ^ Dipinto conservato presso Quadreria dei benefattori, Ospedale San Gerardo "vecchio", già Umberto I, Monza http://www.lombardiabeniculturali.it/blog/percorsi/la-quadreria-dei-benefattori-il-patrimonio-culturale-dellospedale-s-gerardo-di-monza/pietro-tremolada-ritratto-di-re-umberto-i/
  17. ^ Franco Andreucci, Tommaso Detti, Il Movimento operaio italiano: dizionario biografico, 1853-1943, Volume 1, Editori riuniti, Roma, 1975, p. 6.
  18. ^ Ferdinando Cordova, Alle radici del malpaese: una storia italiana, Bulzoni Editore, Roma, 1994, p. 8.
  19. ^ Giorgio Candeloro, Storia dell'Italia moderna, Feltrinelli, Milano, 1986, p.40.
  20. ^ Paolo Valera, I cannoni di Bava Beccaris, Milano 1966
  21. ^ Vilfredo Pareto, Maffeo Pantaleoni, Gabriele De Rosa, Lettere a Maffeo Pantaleoni, 1890-1923, Ed. di Storia e Letteratura, 1962, p. 197
  22. ^ Arrigo Petacco, L'anarchico che venne dall'America, Mondadori, Milano, 1974, p.91.
  23. ^ Ugoberto Alfassio Grimaldi, Il re buono, Feltrinelli, Milano, 1970, p.446.
  24. ^ Gianni Oliva, I Savoia: novecento anni di una dinastia, Mondadori, Milano, 1998, p.434.
  25. ^ Ugoberto Alfassio Grimaldi, Il re buono, Feltrinelli, Milano, 1970, p.447.
  26. ^ Inge Botteri, Rielaborare il lutto, costruire la memoria. Il regicidio di Umberto I a scuola e sui giornali, Brescia: [poi] Roma: Centro di Ricerca F. Odorici; Bulzoni, Cheiron: materiali e strumenti di aggiornamento storiografico. A.18, 2001.
  27. ^ Indro Montanelli, L'Italia di Giolitti (1900-1920), in Storia d'Italia, Rizzoli, 1974.
  28. ^ Giuseppe Galzerano, Gaetano Bresci: la vita, l'attentato, il processo e la morte del regicida anarchico, Galzerano editore, Casalvelino Scalo, 1988, pag. 40.
  29. ^ La pena di morte in Italia
  30. ^ Estratto da: Massimo Ortalli, Gaetano Bresci, tessitore anarchico e uccisore di re
  31. ^ Corriere della Sera, quotidiano, Milano, 28-29 luglio 1901.
  32. ^ Ritratto di Pedro Américo, 1878.
  33. ^ https://www.quirinale.it/onorificenze/insigniti/12319
  34. ^ a b c d e f g h i j k http://augusto.agid.gov.it/gazzette/index/download/id/1900176_PM

Bibliografia[modifica | modifica wikitesto]

  • D. Pieri, Grandi manovre. La visita di Umberto I nella Romagna repubblicana, La Mandragora Editrice, Imola 1994.

Voci correlate[modifica | modifica wikitesto]

Altri progetti[modifica | modifica wikitesto]

Collegamenti esterni[modifica | modifica wikitesto]

Predecessore Re d'Italia Successore
Vittorio Emanuele II 9 gennaio 1878 – 29 luglio 1900 Vittorio Emanuele III
Predecessore Reggente della Colonia eritrea Successore
Titolo inesistente 1890 – 29 luglio 1900 Vittorio Emanuele III
Predecessore Reggente della Colonia di Somalia Successore
Titolo inesistente 1890 – 29 luglio 1900 Vittorio Emanuele III
Predecessore Erede al trono di Sardegna Successore
Vittorio Emanuele, principe di Piemonte
Poi monarca col nome di Vittorio Emanuele II
Principe ereditario
1849 – 1861
Titolo mantenuto solo nominalmente, confluito nel Regno d'Italia
Predecessore Erede al trono italiano Successore
Titolo inesistente Principe ereditario
1861-1878
Vittorio Emanuele, principe di Napoli
Poi monarca col nome di Vittorio Emanuele III
Predecessore Principe di Piemonte Successore
Nuova Creazione 1861 – 1878
2ª creazione
Titolo confluito nella Corona
Predecessore Comandante generale delle truppe alpine Successore
Raffaele Cadorna 1870 – 1873 Luigi Mezzacapo
Predecessore Custode della Sacra Sindone Successore
Vittorio Emanuele II d'Italia 9 gennaio 1878 – 29 luglio 1900 Vittorio Emanuele III d'Italia
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