Terremoto dell'Irpinia e del Vulture del 1930

Terremoto dell'Irpinia e del Vulture del 1930
Macerie
Data23 luglio 1930
Ora01:08
Magnitudo momento6,7
Distretto sismicoIrpinia
EpicentroBisaccia e Lacedonia[1], Italia
41°03′00″N 15°22′01.2″E / 41.05°N 15.367°E41.05; 15.367
Stati colpitiBandiera dell'Italia Italia
Intensità MercalliX
Maremotono
Vittime1.404
Mappa di localizzazione: Italia
Terremoto dell'Irpinia e del Vulture del 1930
Posizione dell'epicentro

Il terremoto dell'Irpinia e del Vulture del 1930 fu un sisma di magnitudo momento 6,7 (X grado della scala Mercalli) che si verificò il 23 luglio 1930 con epicentro in Irpinia, tra Lacedonia e Bisaccia. Il terremoto prese anche il nome dal monte Vulture, alle cui pendici si verificarono ingenti danni, e comunque colpì diffusamente la Basilicata, la Campania e la Puglia, provocando i suoi massimi effetti distruttivi nell'area appenninica compresa fra le province di Potenza, Matera, Avellino, Benevento e Foggia. Il terremoto causò la morte di 1.404 persone prevalentemente nelle province di Avellino e Potenza, interessando oltre 50 comuni di 7 province.

Il sisma fu aggravato dalla scarsa qualità dei materiali usati per le costruzioni e dalle scadenti caratteristiche dei terreni su cui sorgevano gli abitati[2]. Il terremoto colpì l'area montuosa al confine fra l'Irpinia e il Vulture-Melfese, caratterizzata all'epoca da un'agricoltura povera e da scarse infrastrutture, con abitazioni di un solo vano a pian terreno, poste talvolta al di sotto del livello stradale e a cui si accedeva per mezzo di gradini in pietra. Le famiglie di ceto più elevato risiedevano in case di due o tre vani anche su due piani. Entrambe le tipologie abitative erano, generalmente, costruite con ciottoli fluviali o con pietre vulcaniche legate da malte di bassa qualità o da fango essiccato.[2]

Comuni colpiti[modifica | modifica wikitesto]

I comuni più colpiti, dove crollò il 70% degli edifici, furono Aquilonia e Lacedonia. Di seguito le province più danneggiate:

  • i comuni della provincia di Potenza più colpiti furono quelli posti attorno all'ex-vulcano Vulture. In particolare a subire i danni maggiori sia dal punto di vista della perdita delle vite umane, sia dal punto di vista dei danni al patrimonio immobiliare civile e pubblico-religioso fu la città di Melfi.
  • I comuni della provincia di Avellino più colpiti furono quelli ubicati ai confini con la Basilicata; particolarmente danneggiato fu Ariano Irpino e i comuni circostanti.
  • I comuni più danneggiati in provincia di Foggia furono soprattutto quelli appenninici ai confini con Campania e Basilicata.

Malgrado la totale distruzione degli edifici i morti furono solo lo 0,05% della popolazione delle province colpite. Ciò fu dovuto al fatto che esso avvenne in concomitanza con la trebbiatura del grano e che, quindi, gran parte della popolazione stesse dormendo in campagna al momento del sisma. Il 75% delle vittime (1 052) fu in provincia di Avellino, il 15% (214) in quella di Potenza, il 7% (108) in provincia di Foggia, l'1,47% (21) in quella di Benevento, si contarono 7 morti in quella di Napoli e 2 in quella di Salerno. Vi furono 4 264 feriti, mentre i senzatetto furono 100 000 nella sola provincia di Avellino.[1]

Soccorsi[modifica | modifica wikitesto]

I soccorsi furono coordinati dal prefetto di Avellino, Francesco Vicedomini, e un treno di soccorso, col sottosegretario ai Lavori Pubblici Antonio Leoni, raggiunse la stazione di Rocchetta Santa Venere. Leoni divise la zona in quattro comandi (Ariano di Puglia, San Nicola Baronia, Lacedonia e Melfi) affidati ad altrettanti ispettori superiori del ministero. La censura colpì la diffusione di notizie sul sisma, le cui conseguenze furono minimizzate dalla stampa nazionale; contro tali omissioni si scagliò Alfonso Carpentieri, direttore del Corriere dell'Irpinia di Avellino. Successivamente giunse il ministro Araldo di Crollalanza che assunse il comando delle operazioni.[1]

Il treno di soccorso, utilizzato per la prima volta, comprendeva una vettura per le comunicazioni radio, un vagone medico per il pronto soccorso, due vagoni di materiale sanitario e tende, uno per il sottosegretario, due destinati a 100 carabinieri e un carro attrezzi.[1]

I primi sforzi furono volti alla cura della popolazione superstite, spesso, tuttavia, con mezzi non adeguati, e al recupero dei cadaveri. Fu necessario rifornire i comuni interessati di acqua potabile per mezzo di autobotti fornite dall'Azienda Autonoma Statale della Strada e furono distribuite duemila tende, numero che si rivelò poi insufficiente. Il prefetto di Potenza ordinò l'invio di generi alimentari secondo quote di ripartizione proporzionali ai danni e alla popolazione dei paesi: Melfi ricevette il 30% dei viveri, Rionero in Vulture il 25%, Rapolla, Barile, Atella e Ripacandida il 10% ciascuna. Il Genio civile dovette ampliare i cimiteri di Villanova e Aquilonia per poter accogliere le salme delle vittime, al Genio fu attribuita anche facoltà di sancire in via inappellabile la demolizione delle abitazioni pericolanti.[1]

I soldati dislocati in soccorso furono ripartiti in sei settori, Melfi e Foggia (dipendenti dal comando di zona di Bari) e Ariano di Puglia, Villanova del Battista, Carife e Lacedonia (dipendenti dal comando di zona di Avellino).[1]

Fu necessario provvedere a 1 115 fra orfani e abbandonati attraverso l'invio in istituti, colonie o famiglie affidatarie. Il 7 agosto, malgrado la situazione fosse ancora precaria si procedette alla smobilitazione del personale di emergenza, così da diffondere l'immagine di soccorsi rapidi ed efficienti, il cui costo assommò a poco più di 7 milioni di lire.[1]

Ricostruzione[modifica | modifica wikitesto]

Alcune delle "casette asismiche", con quattro alloggi ciascuna, costruite nell'estate-autunno del 1930.

Il Consiglio dei ministri del 29 luglio 1930 stanziò 100 milioni di lire, somma tuttavia inadeguata a coprire i danni e che, alla fine, si fermò a 160 milioni, malgrado le richieste del ministero dei Lavori Pubblici. Il piano per la ricostruzione fu varato con il RDL del 3 agosto 1930 n. 1065 e prevedette un sussidio del 40% del costo dei lavori ritenuti necessari in base a perizie del Genio civile. Per favorire il decentramento della popolazione, nelle zone rurali fu consentito il cumulo con i benefici previsti dalla legge sulla bonifica integrale (legge 24 dicembre 1928, n. 3134) che fecero assommare il contributo per le abitazioni rurali anche all'85%. I benefici riguardarono 63 comuni e ciò portò a forti proteste da parte delle autorità di comuni esclusi ma gravemente danneggiati come Cervinara e Cancellara.[1]

La restante parte del costo di ricostruzione doveva essere coperta da mutui, esenti da imposte, la cui erogazione venne affidata al "Consorzio per le sovvenzioni ipotecarie" del Banco di Napoli. I contrasti sulla valutazione dei danni fra consorzio e ministero, tuttavia, ne rallentarono fortemente la concessione. Poiché solo il 30% del sussidio veniva anticipato, il mutuo era necessario per avviare i cantieri. Il fascio di Aquilonia scrisse a Mussolini per ottenere una proroga del termine per le richieste di sussidio poiché molti avevano dovuto attendere i decreti di trasferimento degli abitati colpiti. Venne anche sollecitato l'esonero dalle tasse per la seconda metà dell'anno e la sospensione di quelle della prima dell'anno successivo, dovuta alla scarsità del raccolto. Sorse infine una polemica fra il Banco di Napoli e il ministero circa la valutazione dei danni poiché il consorzio bancario non accettava di ricevere in garanzia immobili di scarso valore, fu perciò proposto che lo Stato fornisse un'ulteriore garanzia analogamente a quanto fatto col terremoto del 1908. Venne infine chiesto l'aumento del sussidio e la riduzione dei tassi dei mutui, a causa dell'aumento dei costi di ricostruzione degli immobili e della crisi agricola che colpì la regione, oltre che al mancato pagamento di vecchie sovvenzioni agricole da parte dello Stato. Il meccanismo del finanziamento e del mutuo venne esteso agli enti locali in ragione di una sovvenzione del 50%.[1]

Per i senzatetto furono allestite delle tende poiché il regime scelse di non costruire baracche, affermando di voler risolvere l'emergenza abitativa in maniera definitiva. Si decise quindi di costruire le cosiddette "casette asismiche" che sarebbero dovute essere pronte per l'ottobre del 1930. I ritardi nei lavori spinsero però i prefetti a sollecitare l'intervento del governo che permise la costruzione (a settembre) di mille baracche e intensificò i lavori di ricostruzione ultimando 961 casette alla fine d'ottobre, con una spesa lievitata a 68 milioni di lire. A titolo di esempio, ad Aquilonia il costo effettivo di un vano fu compreso fra le 15 000 e le 25 000 lire, contro una spesa prevista fra le 4 320 e le 7 200 lire.[1]

Le "casette" avevano una struttura in elevazione formata da murature in mattoni pieni a due teste, che poggiavano su uno zoccolo di calcestruzzo oppure, dove possibile, di pietrame e malta cementizia, ed erano racchiuse da un'intelaiatura in cemento armato formata da travetti di base, pilastrini e cordoli di coronamento che poggiavano sulla muratura. Gli stipiti e gli architravi di porte e finestre erano in cemento armato. Il tetto, con struttura in legno, era non spingente ed era completato da un tavolato su cui era disposta la copertura in lastre di ardesia artificiale. Le "casette" erano prive di solaio di copertura: le capriate del tetto poggiavano sui cordoli e una rete metallica fissata al di sotto reggeva il soffitto. Ogni "casetta" constava di quattro alloggi formati da uno, due o più vani, dalla cucina e da accessori. I pavimenti, in mattonelle di cemento, poggiavano su un massetto con sottostante vespaio. Nelle cucine, un banco in muratura includeva i fornelli ed era sovrastato dalla cappa con la canna fumaria, mentre i servizi igienici furono dotati di fossa biologica collegata alla rete fognaria. Gli infissi vennero realizzati in legno. Nelle case costruite in pendio, il dislivello fu utilizzato per realizzare al di sotto delle abitazioni un locale rustico destinato al ricovero di attrezzi agricoli, paglia o fieno.[1]

La natura franosa dei terreni portò alla decisione di trasferire totalmente il paese di Tocco Caudio e parzialmente Aquilonia, Bisaccia, Melfi e Rionero in Vulture.[1]

Il sisma danneggiò svariati edifici storici e chiese, la Soprintendenza ai beni culturali provvide al recupero di alcune opere d'arte, ma la catalogazione dei beni non fu completata.[1]

Galleria d'immagini[modifica | modifica wikitesto]

Note[modifica | modifica wikitesto]

  1. ^ a b c d e f g h i j k l m Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia - Informazioni sul terremoto, su storing.ingv.it. URL consultato il 27 agosto 2016 (archiviato dall'url originale il 7 aprile 2018).
  2. ^ a b Dipartimento Protezione Civile - Terremoto Vulture 1930, su protezionecivile.gov.it. URL consultato il 27 agosto 2016 (archiviato dall'url originale il 24 febbraio 2017).

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